Visto ed uscita dal cinema in quella magica bolla di meraviglia dove tutto si sente ovattato a distanza.
Il film inizia a raccontare la vita del pittore quando, stanco della vita a...
Visto ed uscita dal cinema in quella magica bolla di meraviglia dove tutto si sente ovattato a distanza.
Il film inizia a raccontare la vita del pittore quando, stanco della vita a Parigi, ed insofferente per le persone da cui era circondato, decide di trasferirsi nel sud della Francia, nella città di Arles. Quelli che aveva intorno erano solo persone che si professavano artisti (come gli fa notare il suo nuovo conoscente Paul Gauguin), ma che in realtà erano banalmente interessate a fama e denaro.
Seguendo quindi il consiglio di Gauguin, nell’ansiosa ricerca di trovare quella calda luce che Parigi, con il suo grigio, la sua nebbia, non era in grado di offrirgli, Van Gogh si trasferisce a sud.
E’ certamente normale immedesimarsi, chi più, chi meno, nei personaggi che vediamo nei film, pensare a cosa avremmo fatto al loro posto, empatizzare con loro.
E così in “Van Gogh - At Eternity’s Gate” è impossibile non farsi coinvolgere dai pensieri dell’artista, dal suo unico modo di vedere il mondo.
Per cercare di farci entrare nell’immensa mente di Van Gogh, la scelta registica che io apprezzo sempre tanto: la prima persona.
E se in “The Acid House” voliamo con il protagonista-mosca durante le sue vendette e in “Requiem for a Dream” abbiamo allucinazioni per le troppe anfetamine, qui siamo gli occhi di Vincent, occhi sempre entusiasti di posarsi su ciò che è Natura. Siamo lo sguardo del bambino che si emoziona per i colori accesi, quello del pittore che quei colori, mobili, cangianti, mai uguali, li vuole toccare, sentire con tutto il suo corpo e più velocemente possibile trasporre su tela per offrirli a chi non può goderne, a chi non ha i suoi occhi, a tutti al di fuori di lui.
“Daltonici, presbiti, mendicanti di vista
Il mercante di luce, il vostro oculista
Ora vuole soltanto clienti speciali
Che non sanno che farne di occhi normali
Non più ottico ma spacciatore di lenti
Per improvvisare occhi contenti
Perché le pupille abituate a copiare
Inventino i mondi sui quali guardare
Seguite con me questi occhi sognare
Fuggire dall'orbita e non voler ritornare”
Van Gogh come colui che ha donato la vista a chi era (parafrasando ciò che dice il personaggio di Gauguin) ancora fossilizzato nel passato impressionismo di Monet, di Degas, a chi si stava perdendo negli sterili esperimenti scientifici di Seurat, a chi, ostinato e ottuso, non voleva vedere altro, a chi purtroppo non era ancora pronto per quel dono ma si è accorto troppo tardi del tesoro ricevuto.
Abbiamo detto, dunque, prima persona, ma l’idea davvero brillante è che non si tratta di una prima persona singolare, bensì plurale.
Le crisi del pittore, che lo portavano ad una sorta di estraniazione dal mondo tale per cui, alla fine, non ricordasse quasi niente, causano disagio e confusione anche allo spettatore che passa dall’essere Van Gogh all’essere il suo tormentatore, il fantasma che lo ossessiona, le voci nella sua testa, il dolore che lo punge, la paura che lo atterrisce.
Siamo l’uno e l’altro allo stesso tempo, siamo colore e scala di grigi, siamo Forza e lato oscuro.
Ci si sente, se non addirittura schizofrenici, comunque mentalmente instabili e si ha necessità di quiete.
E il montaggio frammentario, la camera a mano, i frequenti fuoco/fuori fuoco certo non aiutano in questo senso.
Il regista (Julian Schnabel, tra l’altro pittore anche lui) ce l’ha messa tutta per permetterci di avere una visione delle cose come avrebbe potuta averla Van Gogh.
E personalmente ho apprezzato molto lo sforzo.
Per Willem Dafoe non saprei quali parole di plauso utilizzare per elogiarlo in maniera adeguata.
Perfetto.
Mio Dio quanto è bravo…
E non passano inosservati i personaggi secondari più importanti di Paul Gauguin (Oscar Isaac) e Theo van Gogh (Rupert Friend).
Seppure sullo schermo per una sola scena, mi è piaciuta molto Mads Mikkelsen che interpreta il prete con cui l’artista ha una bellissima conversazione.
La sceneggiatura fa paura, in senso positivo (e vengo a scoprire solo ora che quel Jean-Claude Carriere sceneggiatore, che ho letto nei titoli di coda, è detentore di due Oscar: uno nel ’63 per il miglior cortometraggio e uno onorario nel 2015).
Si sta sempre sul filo del rasoio, tra follia e normalità, un confine difficilissimo da definire vista la profondità e l’estrema lucidità dei dialoghi che affrontano i personaggi, Van Gogh per primo. Non capiamo più se quel Vincent, è quello di cui ci hanno sempre raccontato la pazzia, quello che si tagliò un orecchio, quello che mangiava i colori per le tele e che per dipingere di giallo i suoi quadri si passava prima il giallo cromo su tutte le mani.
Può un uomo così colto, con chiare idee su religione, arte, bellezza, con precise idee riguardo il rapporto tra sé e gli altri, essere lo stesso folle di cui si parla in città?
Lo deciderà il prete (Mikkelsen)…
Per il finale si è fatto riferimento ad una teoria elaborata nel 2011 dagli storici dell’arte Steven Naifeh e Gregory White Smith nella biografia “Van Gogh: The Life”, e che Schnabel ha qui deciso di abbracciare: l’artista non sarebbe morto suicida ma sparato da due ragazzi che non accusò mai, portandosi i loro nomi nella tomba.
Consiglio di andarlo a vedere in lingua anche a chi ha un po' di difficoltà con l'inglese (Dafoe ha una pronuncia chiarissima): i primissimi piani, le inquadrature strette sulle labbra, sono una goduria.
Per me, decisamente promosso… 💛🌻
Elena Mercuri
5 anni fa
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Adriano Meis
5 anni fa
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