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Piccole Donne è il film-prova del fuoco di Greta Gerwig e quello che determinerà quanto sarà davvero influente il suo taglio nel futuro del Cinema.
Greta Gerwig è uno dei talenti più rappresentativi della nuova Hollywood del secolo corrente e da ormai quasi quindici anni milita sui set della scena indie statunitense, divenendo volto e speranza della scena art house, capace di debuttare come regista e sceneggiatrice con Lady Bird, un film balzato all’attenzione del pubblico e dell’Academy, meritando ben cinque nomination agli Oscar 2018, tra cui quelle per la Migliore Sceneggiatura Originale e per la Miglior Regia.
Un debutto agognato da molti, soprattutto nella Hollywood di oggi, alla disperata ricerca di un riconoscimento culturale importante ma ancora dominata da idiosincrasie da premio da ballo del liceo, mettendo l’Academy nella spinosa posizione di dover trovare un modo di glorificare, in todo modo, il cinecomic che tanto gli ha salvato le finanze e le ville a Orange County.
Greta Gerwig ha però strappato il suo debutto a colpi di gavetta, crescendo come autrice al fianco di Noah Baumbach - ora alla ribalta grazie al suo Storia di un Matrimonio - scrivendo a quattro mani con lui Frances Ha e incarnando il ruolo della protagonista.
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[Se non avete guardato Lady Bird... fatevi un favore. E se volete scoprire il Cinema indipendente USA contemporaneo è un inizio con il botto ma non quello più rappresentatitvo]
Con Lady Bird ha messo a frutto gli anni passati nel cinema art house americano, maturando uno stile di sceneggiatura e regia smaccatamente indie e riconoscibile nella poetica del film da Sundance, ma contraddistinto da uno stile narrativo serrato e votato a scardinare la narrazione archetipica del genere che l’ha creata.
Lady Bird, in breve, ha avuto successo proprio per via del carattere della Gerwig, la cui visione ha invaso la storia di crescita adolescenziale e contrasto tra madre e figlia, per farla a pezzi e rimescolarla.
La Gerwig ne ha cambiato il ritmo, ne ha destrutturato gli atti e il risultato finale è una commedia melanconica che ridefinisce l’indie con i ritmi alti e isterici della parlantina alla Amy Sherman-Palladino, resi però più arguti da una regia e una voce d’insieme meno barocca e più suburbana e che si discosta dai film alla La mia vita a Garden State o Little Miss Sunshine.
Con Piccole Donne, Grega Gerwig viene messa immediatamente alla prova dalla Hollywood più blasonata e ambiziosa e che cerca, come avvenne similmente con Damien Chazelle dopo Whiplash, il film da Oscar: se non mi credete, stando ad alcune previsioni dopo il rilascio, il film sembra destinato a raggiungere i 100 milioni solo con gli incassi USA, insidiando persino l'ultimo capitolo di Star Wars che potrebbe incassare meno de Gli Ultimi Jedi, e diventando un forte pretendente agli Oscar.
Per molti, il capitolo Piccole Donne era stato archiviato con il film del 1994 con Winona Ryder, Susan Sarandon, una giovanissima Kirsten Dunst e Christian Bale.
In tutta franchezza, non ho visto il film diretto da Gillian Armstrong e, checché ne dicano tutti gli improvvisi estimatori di quella pellicola, fino a qualche mese fa non mi ero mai trovato in una conversazione dove, anche solo concentrandosi sui film tratti da libri, venisse calata come asso nella manica.
Detto ciò, non trovo nemmeno utile e interessante concentrarsi su un film che, per quanto ben realizzato, rimane una trasposizione del romanzo che nulla toglie e nulla aggiunge al Piccole Donne originale e che non è e non deve essere metro di paragone quando si parla del film di Greta Gerwig.
[Non me ne vogliate, ma il Piccole Donne del 1994 è diventato come il Pinocchio di Comencini e improvvisamente sembra essere resuscitato come lo schema ad albero di Natale ogni volta che il Milan perde in campionato]
Soprattutto perché il Piccole Donne di Greta Gerwig nasce dalla volontà ben precisa, esplicitata dalla regista anche nel corso delle interviste rilasciate mesi addietro, di portare il proprio stile narrativo nell’adattamento della sceneggiatura, andando incontro ad un vero e proprio adattamento del romanzo di Louisa May Alcott del 1868.
L’intento, che trasuda in ogni segmento del film e cambia completamente il discorso riguardo il film di Greta Gerwig, già di per sé rende molto più interessante la pellicola rispetto a quella del 1994.
Il motivo è presto detto.
Adattare un film in costume, soprattutto quando tratto da un'opera letteraria del 1868 - non proprio il fresco neo-western di Joe Lansdale, il romanzo urbano di Chuck Palahniuk o il sempreverde re del pop orrorifico Stephen King - è uno dei compiti più ingrati che possa toccare a un regista.
Poiché si entra non solo all'annosa questione del dover superare lo scoglio della fantasia del lettore asservita alla scrittura e alla voce dell’autore VS la visione di quell’un unico deus ex machina che è il regista, ma di adattare un medium la cui narrazione, trasposta in immagini, spesso non funziona o va piallata o riscritta, perdendo inevitabilmente qualcosa e sta allo sceneggiatore e al cineasta dare qualcosa di differente in cambio - un po’ come il gioco di pesi e trappola letale alla Indiana Jones, dove se sbagli muori nella maniera più brutale possibile.
Prendiamo ad esempio il Dracula di Bram Stoker.
Non so se avete mai letto il romanzo di Stoker, ma lo stilema narrativo, quel dividere la storia in pagine di diario scritte da diversi protagonisti, unito alla prosa di un'epoca ben diversa dalla nostra e molto più barocca nella stesura, oggi per il lettore potrebbe risultare stucchevole.
Un romanzo inestimabile e archetipico che trovo invecchiato con molta meno grazia rispetto alle opere di H.P. Lovecraft, venuto anni più tardi ed estimatore di Stoker, o ai drammi shakespeariani la cui scrittura, per quanto difficoltosa se letta in originale, ha una fluidità e una bellezza ben differente.
[Con il senno di poi, Dracula non avrebbe mai provato a misurarsi contro il Baba Yaga]
Tornando a Stoker, adattare Dracula significa dare le sensazioni gotiche da cinema Hammer, che bene aveva interpretato a schermo il surrealismo orrorifico di quel filone letterario, cercando di veicolare adeguatamente l’erotismo che Stoker aveva introdotto nella figura del vampiro, e non è per nulla semplice.
Francis Ford Coppola è stato spesso accusato di aver fallito nella sua interpretazione del Dracula di Bram Stoker e non potrei che essere più in disaccordo.
Coppola ha però indubbiamente dato un lato molto più romantico al vampiro, non pop e teen come hanno fatto successivamente altri cineasti e scrittori, pur mantenendo il sangue e il sesso nel tono del film.
Una visione che molti non hanno gradito e che fanno del film un timido successo.
Prendiamo in esame anche Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann, adattamento del meraviglioso romanzo di Francis Scott Fitzgerald.
Nonostante il cast e il discreto successo al botteghino, non ho trovato particolarmente riuscito il film di Luhrmann che, già come in altre occasioni, nel fondere modernità a classicismo ha creato un film sopra le righe che ama chiaramente l’opera originale ma non ne riesce in pieno a trasmettere la potenza, perdendosi in uno sbadato tentativo di convertire la scrittura dei primi anni ‘20 del Novecento in qualcosa di pop e moderno che possa vestire gli anni ‘10 del 2000 - non è ovviamente entrato tra i film del decennio, nonostante sia rimasto un bel film per buona parte del pubblico.
Contaminare il classico con la contemporaneità non è cosa da tutti, poiché si rischia di diventare il Baz Luhrmann del gruppo, ma attenersi alla parola dell’autore può voler dire fare il Ron Howard, rientrando nella categoria “compitino”.
[Baz Luhrmann è un po' lo Zack Snyder della letteratura: per quanto belle possano essere alcune immagini, per quanto possa essere chiaro il suo amore, il suo tocco tende a prendere il sopravvento sull'opera]
Perché sostanzialmente è molto facile cadere nella pedissequa e scolastica trasposizione di un romanzo grandioso che, come uno spettacolo teatrale, si affida alle ottime interpretazioni del cast, alle parole immortali della vicenda e ai dettami dell’adattamento e della regia per portare a casa un buon film.
Come si fa allora a farne uno memorabile, capace di funzionare senza sfigurare l’opera originale ma preservando l’attenzione del pubblico?
Chiami Greta Gerwig.
Come detto in apertura, presentando Greta Gerwig, la scrittura e la voce della sceneggiatrice e regista americana entrano con garbo in Piccole Donne e quanto viene fatto in sceneggiatura è principalmente un certosino lavoro di revisione dei tempi della narrazione.
La Gerwig prende il Piccole Donne di Louisa May Alcott e lo trasporta nel 2019, cambiando il passo della narrazione e spezzandolo la lineare successione di eventi in due momenti temporali, alternando il presente della parte conclusiva del romanzo con il principio, ora passato, il vissuto che è destinato a diventare il romanzo di Jo, splendidamente interpretata da Saoirse Ronan.
Nel fare ciò, si rende necessario qualche piccolo adattamento e il personaggio di Amy March interpretato da Florence Pugh non è, nel passato, tanto giovane quanto dovrebbe essere - un dettaglio che, in tutta franchezza, mi ha quasi del tutto lasciato indifferente dato che il contrasto tra i personaggi non viene rivisitato o cannibalizzato dalla scelta, anzi.
Piccole Donne vive quindi di un ritmo ben diverso, con una Greta Gerwig sceneggiatrice e regista capace di scandire con eleganza gli stacchi temporali del racconto sia in scrittura che in regia, comunicando molto bene i due momenti.
Piccole Donne assume quindi una densità narrativa molto moderna pur non perdendo l’essenza del romanzo originale, anzi, rispettandola a pieno e colpendo lo spettatore con dei dialoghi ben misurati all'energia dell'interpretazione dei personaggi.
[L'interpretazione di Jo offerta dalla Ronan è davvero prorompente e solleva molti contrasti nello spettatore dando davvero vita al suo carattere]
La Gerwig, così facendo, scongiura il pericolo di una pedissequa trasposizione e ci evita l’imbarazzo di assistere a scene tanto portanti per la morale della storia quanto troppo fuori dal tempo, regalandoci un dramma agrodolce e umano fruibile nella concezione dei ritmi del racconto moderno.
Il modo in cui la Gerwig usa saggiamente i collegamenti tra passato e presente della vicenda, è fondamentale per costruire una serie di parallelismi riguardo i significati di Piccole Donne, incarnati dai diversi momenti della loro crescita, sottolineando con un accento più efficace i contrasti e le idiosincrasie dei caratteri così diversi nell’affrontare le similari sfide della loro vita.
Ogni personaggio ha una identità ben costruita e raccontata e Jo diventa sì catalizzatore e occhio sulla storia delle Donne March, ma non succhia mai la luce.
Anzi, proprio grazie a un espediente, non nuovo, utilizzato dalla Gerwig per dare voce alla corrispondenza di Jo e dei personaggi coinvolti nella storia di Piccole Donne, abbiamo anche occasione di trovare una buona chiave utile a giustificare l’occhio utilizzato da Jo nell’adattare la vicenda romanzata, giustificando di rimbalzo gli escamotage della regista nello spezzare la linea temporale degli eventi.
Piccole Donne diventa quindi un film incredibilmente energico e che con gli stessi segni autoriali di Lady Bird ci porta un racconto umano accorato e coinvolgente, portato a schermo attraverso una regia fluida e mai impostata.
[Quanto è bravo Timothée Chalamet? ...non lo so, ditemelo voi: in tutta franchezza credo sia oscurato dal cast femminile, molto più potente nella recitazione]
Le Piccole Donne March hanno fervore, sono un club esclusivo al quale abbiamo accesso grazie al racconto di Jo e che finisce con l'affascinarci.
La Gerwig si dimostra anche all’altezza della direzione di un cast omogeneo diviso tra giovani star e attori affermati come Laura Dern, Meryl Streep e Bob Odenkirk, segnando, salvo non stia scordando qualcosa, il film con il cast femminile più potente visto a schermo nel recente passato e molto più convincente di altre operazioni commerciali create appositamente.
Piccole Donne è indubbiamente una scommessa riuscita e credo che solo Greta Gerwig avrebbe potuto interpretare così bene un classico della letteratura mondiale, discostandosi da stilemi narrativi visti e rivisti per trasportarlo nel presente senza nuocere drasticamente al tessuto dell’opera originale.
Eppure, se volete lasciarmi spazio per una riflessione finale su Greta Gerwig, questo Piccole Donne sembra darci la cifra stilistica della regista e sceneggiatrice americana senza però dirci dove andrà da qui in avanti con il suo segno autoriale e cosa ne farà di questa sua voglia di scardinare le strutture precostituite e dare alle fiamme al dinamismo dei suoi caratteri.
Sarà forse il suo prossimo film a darci dimensione di chi è e chi vuole essere Greta Gerwig nel panorama del cinema hollywoodiano?