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A Real Pain è un film scritto, diretto e interpretato da Jesse Eisenberg, al suo secondo lungometraggio da regista; è un film d'autore che vanta tra i produttori Emma Stone e Dave McCary e si è attestato tra i protagonisti della stagione dei premi di quest’anno: Kieran Culkin si è infatti già aggiudicato il Golden Globe, il BAFTA, il Critics’ Choice Award e il SAG Award come Migliore Attore Non Protagonista ed è il favorito per la vittoria del Premio Oscar 2025 nella medesima categoria.
Jesse Eisenberg - indimenticabile protagonista di The Social Network di David Fincher - scrive un racconto semplice intrecciando storia familiare e Storia contemporanea per tentare di spiegare, e forse esorcizzare, a real pain, ovvero un dolore vero, reale, spesso oscurato dal turbinio della quotidianità.
A Real Pain è così un titolo multiforme, applicabile ai diversi strati della narrazione, che nonostante proceda con una scrittura delicata e a tratti pregnante, sembra spesso rimanere in superficie, senza scavare a fondo nelle questioni che tratta ma senza per questo sminuirle.
[Il trailer di A Real Pain] A Real Pain
A Real Pain racconta dei cugini David e Benji Kaplan che dopo la morte dell’amata nonna Dory, ebrea polacca, decidono di intraprendere un viaggio alla scoperta dei suoi luoghi d’origine, per conservarne la memoria e rendere omaggio al suo viaggio doloroso di esule e sopravvissuta.
I due cugini appaiono subito una coppia singolare, completamente antitetica: il David di Jesse Eisenberg è preciso, maniacale, sempre nervoso, esageratamente rigido (Eisenberg ha un po’ scritto sé stesso), mentre il Benji di Kieran Culkin è un compagnone, senza peli sulla lingua, impavido e sregolato, senza però per questo essere il più felice tra i due.
A Real Pain inizia il suo percorso dall’aeroporto di New York al centro storico di Varsavia, luogo in cui la strana coppia si unisce al gruppo di viaggio anch’esso assortito curiosamente: Marcia (Jennifer Grey) è una newyorkese appena divorziata, figlia di una sopravvissuta all’Olocausto che non ha mai condiviso con lei la propria esperienza, Eloge (Kurt Egyiawan) è un sopravvissuto al genocidio del Rwanda convertitosi all’ebraismo dopo essere arrivato negli Stati Uniti, Diane (Liza Sadovy) e Mark (Daniel Oreskes) sono una coppia di pensionati statunitensi alla ricerca delle radici della famiglia di Mark, originaria di Lublino e James (Will Sharpe), è una guida turistica inglese esperta di Storia dell’Europa orientale e di Storia ebraica europea.
Dal monumento della resistenza di Varsavia ai resti del ghetto ebraico, dal memoriale dell’Armata Rossa al campo di concentramento di Majdanek, il composito gruppo esplora la storia polacca del ’900, la storia delle loro radici, tra piccoli incidenti di percorso e l’esuberanza di Benji, spesso mal tollerata anche da David, ma che scopriamo provenire da una profonda sofferenza personale: appena sei mesi prima del viaggio, infatti, Benji ha tentato il suicidio, forse depresso e infelice per l’andamento non soddisfacente della propria vita, opposta anche in questo a quella di David, che nonostante le proprie idiosincrasie è felicemente sposato, padre del suo primo figlio e con un lavoro stabile.
A Real Pain imposta così un parallelismo tra il dolore della Polonia della Shoah e quello della contemporaneità dei discendenti dei sopravvissuti, ai quali è permesso di vivere senza dolore proprio grazie al sacrificio degli avi.
Tanta sofferenza ha portato a una nuova vita, che non sembra però essersi affatto smarcata dal dolore, che nelle seconde e terze generazioni si fa più intimo, radicato, solitario e per questo più subdolo, costituendo la filosofia fondante di tutto il film: come è possibile che tutta la sopravvivenza miracolosa a un evento epocale come l’Olocausto abbia portato comunque a tanta sofferenza emotiva?
“Un tour che racconta di dolore”, dice James presentando il viaggio al gruppo, che si fa metafora per esplorare il dolore intimo e personale dei partecipanti, ma anche emblema del tentativo contemporaneo di indagare un periodo storico che ha segnato inevitabilmente il mondo intero e che ancora oggi accende importanti discussioni sulla necessità di trovare una nuova dimensione narrativa libera da strumentalizzazioni pericolose.
[A Real Pain: Jesse Eisenberg e Kieran Culkin sono David e Benji] A Real Pain
I like Chopin
A Real Pain appartiene alla schiera di film, come i recenti 1917 e Gone Girl - L'amore bugiardo, che iniziano e finiscono con la stessa inquadratura, in questo caso Benji seduto in aeroporto in attesa.
La Ringkomposition visuale è accompagnata da altri due elementi che creano un ritmo costante: l’elemento narrativo, dato dalla mancata evoluzione del personaggio di Benji, che torna a New York per niente cambiato dal viaggio appena concluso, e l’elemento sonoro, cioè il tappeto musicale esclusivamente costituito da brani di Chopin.
Fryderyk Chopin, pianista polacco ma francese d’adozione, è forse il compositore più famoso che la Polonia ha regalato al mondo e le sue musiche risuonano familiari anche alle orecchie dei non addetti ai lavori.
La scelta di tale colonna sonora per A Real Pain può avere diversi significati: il primo potrebbe essere, come già detto, l’identificazione della Polonia con il proprio compositore simbolo e un omaggio al suo genio.
Altro significato potrebbe essere esplicitato dalle parole di James, la guida turistica, durante la visita a Lublino: davanti alla Porta di Grodzka, l’entrata dell’antico quartiere ebraico, esorta i visitatori a immaginare la città ben prima dei fatti drammatici del ’900, evitando di pensare agli orrori e concentrandosi invece sulla vibrante Lublino dei secoli precedenti, città universitaria, culturalmente attiva e pertanto chiamata la “Oxford ebrea”.
L’uso di Chopin riporta quindi alla cultura polacca precedente alla Shoah, una cultura che l’evento terribile ha purtroppo oscurato, lasciando in evidenza ricordi di sofferenza e non più di vitalità.
Un ulteriore significato potrebbe essere collegato al precedente: l’uso delle musiche di Chopin in A Real Pain mitiga il dolore anche attraverso il sonoro, sortendo nello spettatore un effetto calmante piuttosto che orrorifico.
Ciò non può che richiamare La zona d’interesse e l’uso che Jonathan Glazer ha fatto del sonoro, elemento protagonista e dall’intento opposto di A Real Pain, cioè quello di evocare sensitivamente l’orrore dello sterminio, perennemente fuoricampo, attraverso suoni e musiche angoscianti, ma come non pensare anche a Il pianista di Roman Polański, in cui la musica di Chopin da colonna sonora diegetica si fa strumento di salvezza per il protagonista Władysław Szpilman.
Infine, ancora un altro significato potrebbe essere il rifarsi allo stile della cinematografia, soprattutto di ambientazione europea, di Woody Allen, di cui Jesse Eisenberg sembra voler essere l’erede, accogliendo bene nella propria scrittura le stesse nevrosi e lo stesso mal di vivere, ma un po’ meno l’acume e il sarcasmo del pensiero.
L’ispirazione si nota anche dall’indugiare della regia di Eisenberg sulle architetture, sulle strade brulicanti di vita quotidiana e sulle inquadrature di paesaggi accompagnate dalle parole descrittive di James.
[A Real Pain: Marcia, David e Benji sul treno per Lublino]
L’era del testimone
A Real Pain è il racconto di radici perdute a causa dell’Olocausto.
Sebbene il film non sia a mio parere da annoverare nella schiera dei lungometraggi dedicati al tema poiché affronta, come già detto, la questione in maniera superficiale, è comunque un buon punto di partenza per una riflessione sempre necessaria.
Nel 2023 proprio La zona d’interesse di Jonathan Glazer ha portato ancora una volta alla ribalta il racconto dell’Olocausto dando però a esso una veste inedita e in linea con una nuova via di rappresentazione della tematica nell’industria cinematografica, anche dovuta agli sviluppi contestuali della nostra contemporaneità, che ci impongono un punto di vista meno emotivo sugli avvenimenti drammatici della questione israelo-palestinese, il cui racconto è anche un po’ figlio dell’era del testimone che ha caratterizzato il ’900.
Le testimonianze sulla Shoah, in letteratura come al Cinema, hanno infatti una storia particolare: nell’immediato dopoguerra i testimoni diretti delle atrocità del regime nazista furono praticamente silenti per svariate ragioni, dalla paura di non essere creduti alla difficoltà di riportare alla mente un trauma inimmaginabile.
In A Real Pain questo aspetto è rappresentato da Marcia e dal rapporto con la madre, che da sopravvissuta a un campo di sterminio non ha mai condiviso i propri ricordi con la famiglia.
È dagli anni ’60 in poi che le voci dei sopravvissuti cominciano a entrare nell’immaginario collettivo e a costituire non soltanto una cospicua letteratura memoriale, ma anche ottimo materiale per un racconto audiovisivo tra film e serie TV dedicati all’Olocausto, di cui Schindler’s List e Il pianista sono solo le punte di diamante.
[A Real Pain raccontato da Marco Lovisato nel nostro podcast]
Che ciò inizi negli anni ’60 non è casuale: è infatti del 1961 il processo a Adolf Eichmann, funzionario nazista e responsabile operativo del sistema dei campi di sterminio - processo mirabilmente raccontato da Hannah Arendt ne La banalità del male - che vide i testimoni dello sterminio come parte integrante del procedimento penale.
Le voci di chi era sopravvissuto entravano così in un’aula di tribunale e, per la prima volta, venivano trasmesse all’esterno grazie alla grande attenzione mediatica che il processo attirò su di sé: è da qui che la Storia dell’Olocausto iniziò a essere fatta dai testimoni, con effetti non sempre positivi.
“Non esiste buon testimone, né deposizione esatta in ogni sua parte”.
Così parlò lo storico Marc Bloch nel suo La guerra e le false notizie, sottolineando l’assunto secondo cui ogni testimonianza è una visione parziale, frammentaria e spesso fuorviante di un evento e che non può e non deve essere il primo né l’unico strumento di indagine storica, men che meno di verità giudiziaria come accadde al processo Eichmann.
Premessa l’importanza delle voci e delle memorie dei sopravvissuti alla Shoah, siamo però ormai consapevoli che esse non bastano più per inquadrare in maniera corretta ciò che è stato l’Olocausto, per molteplici ragioni: il racconto che si fa è spesso concentrato sulla sola componente ebraica, tralasciando tutti gli altri gruppi che furono oggetto di discriminazione e sterminio (rom, omosessuali, oppositori politici, disabili); esso inoltre è stato spesso utilizzato non per ciò che è, ovvero la realtà sofferente dei fatti, ma per ciò che rappresenta, cioè il paradigma vittimario, il sistema secondo cui un dolore inimmaginabile è diventato strumentalizzabile per tutti gli avvenimenti successivi alla costituzione dello Stato d’Israele.
Ecco dunque come, anche e soprattutto alla luce della cronaca alla quale assistiamo di giorno in giorno, una nuova narrazione della Shoah è quantomai necessaria e pur non avendo la potenza de La zona d’interesse, A Real Pain fa la sua piccola parte: il tour intrapreso da David e Benji ha l’intento di elaborare il dolore ancestrale di un evento drammatico da un punto di vista privilegiato per riconoscere lo stesso dolore nel mondo contemporaneo.
Conoscere il dolore attraversato il passato può aiutarci a riconoscere quello stesso dolore nel presente, seppur in luoghi lontani e diversi da quelli da cui osserviamo.
[A Real Pain: James, Benji e David all'entrata dei capannoni del campo di Majdanek] A Real Pain
Empatia
Il dolore in A Real Pain è quello di un popolo, ma anche di un individuo.
È infatti inevitabile slegare il percorso di conoscenza delle proprie origini dal viaggio interiore nel dolore di Benji, che però, come abbiamo detto, non poterà ad alcuna risoluzione, lasciando praticamente il suo personaggio invariato.
Il dolore di Benji è inevitabilmente anche il dolore di David: il complesso di colpa che David vive nei confronti di Benji – avere una vita realizzata al contrario del cugino – è un po’ lo specchio del complesso di colpa nei confronti degli avi, costretti a subire sofferenze inenarrabili per la sola ragione d’esistere in un tempo e un luogo in cui non erano graditi.
“Le persone non possono andare in giro per il mondo sempre felici”, dice Benji facendosi portavoce della scissione inevitabile di un individuo consapevole: sei in un mondo sicuro, agiato, mentre nello stesso momento, in altre parti del mondo, tanta altra gente sta rivivendo ciò che i tuoi avi hanno vissuto decenni fa, senza alcuna pace né agiatezza e senza che pace e agiatezza ti rendano immune da una sofferenza interiore che, pur non essendo causata da fattori estremi come guerra e povertà, è comunque presente e non ignorabile.
Quindi si corre ai ripari, si cerca di essere il più rispettosi ed empatici possibile e si tenta di abbracciare una visione che non ti porti a dimenticare il dolore del mondo perché troppo occupato a gestire il proprio.
Il personaggio di Eloge è emblematico: è già un sopravvissuto a uno dei peggiori genocidi della storia recente, quello del Rwanda nel 1994, potrebbe sventolare la patente di vittima dimenticando il resto, ma sceglie di empatizzare con una sofferenza che ha trovato di giorno in giorno vicina alla propria storia personale e che lo ha portato a convertirsi a quello stesso credo ostracizzato nel corso dei secoli.
Altro elemento da non dimenticare è il punto da cui parte il racconto di A Real Pain in Polonia: la rivolta del ghetto di Varsavia.
“Credo che sia importante smontare subito il mito secondo cui queste persone si fecero portare come agnelli al macello” dice James, riassumendo il pensiero di una delle correnti della letteratura memoriale sull’Olocausto - spesso la più criticata perché fortemente polemica proprio riguardo all’uso improprio delle testimonianze - ovvero quella che rifiutava la rappresentazione degli ebrei europei come “capro espiatorio”.
Una narrazione che nel corso dei decenni è stata purtroppo strumentalizzata e piegata a scopi disumani.
[A Real Pain: David e Benji osservano il monumento della rivolta del ghetto di Varsavia] A Real Pain
Non-luoghi
A Real Pain, pur essendo un road movie, è innanzitutto un film di non-luoghi.
C’è il non-luogo del treno, che nella sua versione contemporanea non può che richiamare i treni della morte diretti ai campi di concentramento.
Il mezzo che oggi trasporta viaggiatori privilegiati, decenni prima sugli stessi binari trasportava gente verso una fine sistematica e organizzata.
È in questo contesto che si innesta la polemica – un po’ sopra le righe – di Benji sul non voler viaggiare in prima classe, per un fantomatico rispetto verso tutti coloro che nei treni del passato hanno viaggiato stipati come bestie mandate a morire.
C’è il non-luogo del campo di sterminio di Majdanek, che è un non-luogo atipico: è effettivamente un luogo in cui tanta vita e tanta morte sono passate, ma è oggi diventato non-luogo in quanto simulacro di memoria, uno dei campi conservati meglio, come osserva con paradosso James, perché non distrutto dai tedeschi dopo l’abbandono e il trasferimento dei prigionieri.
Il momento della visita al campo è l’unico senza alcuna colonna sonora, quasi si osservasse un religioso silenzio.
Eppure, per quanto significative, le immagini sembrano essere una rapida interruzione di un tumulto interiore, quello di Benji ma anche di David, più che una coltellata allo stomaco come sono state le immagini di Auschwitz-Birkenau sul finale dell’ormai capitale La zona d’interesse.
[La comitiva di A Real Pain prima di entrare nel campo di Majdanek] A Real Pain
C’è il non-luogo, anche questo in un’accezione atipica, della casa della nonna di Benji e David, che i cugini vanno a visitare staccandosi dal gruppo di viaggio.
È un luogo anonimo ormai abitato da altra gente, che per loro è un non-luogo della memoria, una casa che è allo stesso tempo quella della nonna ma non più la sua.
È qui che viene reiterata la scena ironica del rito della pietra – rito reso famoso cinematograficamente dal finale di Schindler’s List – che, come tante azioni folklorizzate, si svuota del suo vero significato dando anche vita a un siparietto con due abitanti del posto.
C’è infine il non-luogo dell’aeroporto che, come dicevamo all’inizio, torna alla fine nella medesima inquadratura in cui anche i movimenti di macchina sono identici.
Una volta tornato a New York Benji declina l’invito a cena di David, dicendogli che preferisce rimanere al terminal, perché “ci incontri le persone più assurde”, quasi stesse conducendo una ricerca antropologica.
Che Benji decida di trascorrere del tempo in un non-luogo perché percepisce la propria come una non-vita?
Un’esistenza che sembra essersi bloccata e che lui non riesce a far ripartire?
È un’ipotesi che possiamo solo vagliare, perché A Real Pain non ci fornisce molti chiarimenti a riguardo, riportando Benji e David alla loro condizione iniziale: nessun riavvicinamento, nessun superamento di un dolore, forse solo qualche leggera consapevolezza in più.
Capiamo però che a real pain è quello di Benji, un dolore che anche dopo aver sondato i meandri più oscuri della propria storia familiare è ancora presente, non scalzato dalla sofferenza collettiva e più grande, perché non esiste alcuna bilancia su cui misurare due facce della stessa medaglia.
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Noi e loro Noi e loro
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