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In Challengers, il nuovo e bellissimo film di Luca Guadagnino, l’astro del tennis Tashi Duncan (Zendaya) chiede ai due golden boy Patrick Zweig (Josh O’ Connor) e Art Donaldson (Mike Faist) chi rappresenta il fuoco e chi il ghiaccio.
Stiamo parlando solo di sport?
[Il trailer di Challengers]
Da una parte abbiamo un elemento indomabile e per questo impulsivo, dall’altra uno stato di materia che richiama la calma, una stasi solida e - apparentemente - sicura.
Vedendo Challengers è facilmente intuibile chi tra Patrick e Art corrisponda al fuoco o al ghiaccio, dato che i due personaggi sono costruiti su archetipi quanto mai riconoscibili. Per Guadagnino però non è importante il singolo, ma cosa scaturisce dall’unione di essi.
Il contatto tra fuoco e ghiaccio genera l’acqua, capace di domare incendi e di trasformarsi - adattandosi - in un un nuovo stato solido.
Seguendo un’ottica junghiana l’acqua rappresenta una delle tipizzazioni dell’inconscio, un involucro contenente tutti i nostri pensieri più profondi e, sempre secondo il pensiero dello psicoanalista svizzero, è anche il simbolo della maternità.
In Challengers Tashi Duncan è l’acqua, l’elemento che pone in relazione Patrick e Art, che controlla le dinamiche di coppia creando conflitto, indicandone la vera natura.
Fondamentale la scena tanto chiacchierata intravista nel trailer - quella del ménage à trois - dove Tashi provoca le due controparti maschili mostrando, attraverso il suo sguardo, l'inconscio dei due amici, rilevandone gli istinti omoerotici spesso sottesi in ammiccamenti innocui per uno e speranzosi per l’altro.
[Josh O' Connor e Mike Faist in Challengers]
Il personaggio di Zendaya in Challengers però non controlla le geometrie di un triangolo amoroso come si potrebbe intendere nella classicità del Cinema, bensì ne fa esplodere le linee, le oltrepassa inserendosi - proprio come l’acqua - in ogni possibile insenatura per far germogliare pulsioni che altrimenti rimarrebbero a marcire.
Tashi perciò pone il suo sguardo al centro del campo da gioco, alternando campo e controcampo nella visuale decidendo cosa vale la pena essere visto e cosa no.
Così facendo crea un cortocircuito dove la necessità da parte di Patrick e Art di essere visti diventa l’unica ragione di esistere - parafrasando George Berkeley “Essere è essere percepiti” - e di produrre, in conclusione, un’azione: “Come mi guarderai se non riesco a batterlo?”.
In Challengers i comportamenti dei personaggi incarnano le dinamiche del campo da gioco/set, un ambiente che assume forme di uno spazio-tempo completamente estraneo alle logiche di una narrazione lineare proprio perché è l’azione che produce una nuova situazione e non viceversa.
Luca Guadagnino d’altronde filma il regolamento di conti (la partita finale) tra Patrick e Art come se fosse un western - non è un caso che il film inizi con dei primissimi piani leoniani - il genere cinematografico dove una sottile differenza tra due azioni può produrre una differenza enorme fra due situazioni.
Il posizionamento preciso di una pallina da tennis sulla racchetta provoca dunque finalmente un reale movimento nelle dinamiche relazionali degli amici/nemici/amanti attirando la sincerità dello sguardo di Tashi.
[Challengers: erotismo dello sguardo]
L’esplosione virtuosistica della regia di Guadagnino negli ultimi quindici minuti è di conseguenza funzionale a esaltare l’atto creativo e sessuale.
Perciò via libera a soggettive della pallina, ralenti, musica ininterrotta da cui deriva una doppia performance visiva e sportiva che esalta la stilizzazione dei corpi come veicolo per generare esperienze sensoriali inebrianti.
Challengers è un’opera in cui lo sguardo rappresenta il gesto tecnico per mettere in condizione di significare due segni: un crito-film sulla possibilità comunicativa delle immagini di oggi che nell’urlo liberatorio finale di Tashi Duncan raggiunge l’orgasmo creativo definitivo.
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