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The Fabelmans - Recensione: l'altro più grande spettacolo del mondo

Il nuovo film di Steven Spielberg riesce nell'impresa di amalgamare perfettamente gli elementi del biopic con quelli di una riflessione teoretica sul mezzo cinematografico, restituendo la meraviglia del guardare un film

Ciò che ci spinge ad andare al cinema, ciò che ci affascina di una sequela di immagini in movimento, ciò che ci rende parte di un evento irripetibile si può riassumere nella prima sequenza di The Fabelmans.

 

Non c’è nulla come l'inizio del nuovo travolgente film di Steven Spielberg in grado di raccontare cosa si provi quando si entra in una sala cinematografica, che sia per la prima volta o per l’ennesima.

 

Lo sa bene la mamma del piccolo Sam - evidente alter ego di Spielberg - che quando accompagna suo figlio al cinema lo rassicura spiegandogli molto candidamente “I film sono come i sogni”.

 

Come sogni, perciò un mondo fantastico, una porta verso qualcos’altro, verso “Il più grande spettacolo del mondo”.

 

[Il trailer di The Fabelmans]

 

 

The Fabelmans non è il classico biopic nostalgico che trasuda una cinefilia fine a sé stessa, in grado di deliziare il palato degli spettatori in sala senza riflettere su cosa significhino le immagini hic et nunc.

 

Certamente i riferimenti ci sono eccome, ma la potenza e la perspicacia di Spielberg risiede proprio nel catturare con la cinepresa le sequenze dei film che lo hanno formato per farle sue, per capire come funziona l’arte che ha rivoluzionato il secolo scorso.

Quindi Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille diventa il trampolino di lancio per iniziare a vedere la realtà attraverso il Cinema e di conseguenza ricostruirla secondo un punto di vista, un orizzonte preciso.

Un mezzo che cattura la realtà e che permette di riflettere su di essa.

 

Come ci insegna però Paolo Sorrentino in È stata la mano di Dio spesso “La realtà è scadente” e l’occhio che inquadra ciò che non può essere visto - riflettendo quindi sulla natura voyeuristica di noi spettatori - diventa uno strumento per crescere, traslando non più solo i film come sogni ma anche come finestra sul mondo.

La famiglia in The Fabelmans è un elemento fondante di questo aspetto, essendo il moto principale per cui Sam evolve il suo sguardo, la sua maturità e sensibilità artistica. 

 

Al di là dei momenti di commozione che Spielberg riesce a provocare attraverso la ricostruzione dei suoi primi film amatoriali, la potenza sia cinematografica sia emotiva di The Fabelmans raggiunge il suo apice proprio quando l’attenzione si sposta all’interno delle mura domestiche, dove il Cinema diventa una quinta teatrale in grado di dare respiro all’intimità familiare.

I genitori di Sam - gli eccezionalmente bravi Paul Dano e Michelle Williams -  sono il collante tra la realtà e il sogno, tra pragmatismo e libertà artistica, tra Cinema come finestra sul mondo e porta. 

 

La crisi della coppia di genitori - i The Fabelmans del titolo - è l’evento centrale del film, che permette a Sam di squarciare Il velo di Maya della finzione cinematografica imparando a conoscere realmente lo stato delle cose, come se si trovasse in una seduta di psicanalisi.

 

 

[La coppia Dano-Williams protagonista di The Fabelmans e probabilmente della prossima Award Season] 

 

C’è una sequenza in particolare che ci permette di riflettere su questo aspetto: il papà di Sam chiede a suo figlio di montare il film del loro campeggio per confortare la madre che sta affrontando un brutto momento.

 

Qui il giovane Spielberg/Sam inizia la fase di montaggio, guardando e riguardando le sue riprese, tagliando pezzi di pellicola e accorgendosi che proprio in quei candidi momenti di felicità si nasconde la realtà sul rapporto tra i propri genitori: “Il Cinema è verità 24 volte al secondo”, disse qualcuno che ci ha abbandonato poco tempo fa. 

 

In questa meravigliosa sequenza non c’è nessun dialogo, solo la colonna sonora del fedele John Williams di sottofondo, come fosse una sorta di film delle origini volto a mostrare la potenza e la crudeltà delle immagini, del narrare tramite esse.

La cinepresa come mezzo per capire ed esorcizzare il dolore e soprattutto rielaborarlo e metterlo in scena. 

 

Una lezione crudele che Sam fa sua quando si trasferisce in California e viene bullizzato dai propri compagni perché è ebreo.

Le immagini però gli permettono di avere potere su di loro, aspetto che ci porta all’altra sequenza fondamentale di The Fabelmans: Sam deve realizzare il film della gita al mare del proprio istituto che verrà successivamente mostrato al ballo di fine anno.

Una volta arrivato il fatidico giorno, nel buio dell’istituto viene proiettato il lavoro del personaggio interpretato dal commovente Gabriel LaBelle, che sconvolge uno dei bulli.

 

Le immagini infatti lo elevano a divo del Cinema, mettendo in risalto tutte le sue qualità atletiche. 

 

 

[Quello in The Fabelmans è il primo grande ruolo di Gabriel LaBelle]

 

Perché farlo? 

 

Semplice: Sam con questa scelta ottiene il rispetto del bullo - che grazie al film riconquista la propria ragazza - mettendo in scena una manipolazione del vero, una sorta di propaganda, un rischio etico che riflette sulla nostra vulnerabilità da spettatori. 

 

Due sequenze dall’aspetto teorico vitale, che prendono in esame due modi di vedere e concepire il Cinema, due modi di intendere la vita, due modi di catturare le immagini-specchio della natura dei genitori di Sam/Spielberg. 

 

The Fabelmans a mio avviso non è solo un biopic, ma un punto di vista sul guardare le immagini, un film che non ha mai l'orizzonte centrale ma sempre in alto o in basso e perciò, come insegna John Ford, un orizzonte interessante che produce un significato, una narrazione.

 

Un’opera che è un saggio teorico, una dichiarazione d’amore e una storia struggente, l’ennesima lezione di Cinema di un regista unico che in questo film da The Fabelmans diventa The Fablesman, l’ultimo cantastorie: Steven Spielberg. 

 

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