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Aspetta un segno l'Adriana di L'immensità, tesse ragnatele, vuole "stare nel cielo" per lavoro, vive in una casa che è "una navicella sospesa nel tempo e nello spazio", si avventura nella tana del Bianconiglio: vorrebbe fluttuare e fluire quando una realtà chiama al confronto, non ammettendola davvero questa immensità che non implica necessariamente una liberazione solo positiva.
Partendo da un forte dato autobiografico, Emanuele Crialese torna al Lido a undici anni dal Leone d'argento attribuito a Terraferma e realizza il suo film indubbiamente più personale, proiettandosi sulla giovane protagonista.
Il percorso di Adriana, dodicenne che "vuole convincere tutti di essere una maschio", è un viaggio identitario che non ricalca pedissequamente la struttura del Bildungsroman, e Crialese, guardando al proprio passato, colloca il discorso nel quadro di una più ampia riflessione sull'istituzione familiare che, a sua volta, diventa cartina tornasole di un'indagine sull'umanità, sui rapporti umani.
[Il trailer di L'immensità] L'immensità
Muovendo (scenograficamente) in una riproduzione esatta della propria casa d'infanzia e (diegeticamente) nella Roma degli anni '70, il regista - per una volta operante in prevalenza in interni - presenta allo spettatore un nucleo composto da madre, padre, Adriana, fratello e sorella minori in cui la situazione emotivo-relazionale non è delle migliori.
Le difficoltà coniugali si ripercuotono sui figli, il benessere piccolo/medio-borghese non funge nemmeno da palliativo, le devianze (per usare un termine recentemente comparso nel dibattito politico e qui inteso come contraltare/controcampo di un assetto normativo certamente né naturale né spontaneo) di Adriana complicano il tutto; solo uno il porto sicuro: la relazione tra Clara e prole, con particolare riferimento all'incerta figlia maggiore.
Crialese in L'immensità affronta il tema dell'identità (di genere) e, nel suo essere indubitabilmente schierato, tenta ovviamente di farlo senza incappare nell'eccesso di programmaticità, caratteristica che comunque guida il trattamento retorico e che talvolta, come in alcuni dialoghi, emerge con troppa chiarezza.
Quasi paradossalmente, proprio l'insopprimibile intento dimostrativo rischia di scontrarsi con l'incapacità di offrire allo spettatore un punto di vista nuovo sulla questione.
Adriana non cambia poi molto nel corso del film, e ciò non è affatto un male, perlomeno non necessariamente: ella prende coscienza di alcune cose, matura sotto alcuni aspetti, ma conserva - in modo ideologicamente condivisibile - quei tratti umani che, nel gioco delle parti familiare, prescindono dalle etichette e rendono autentiche le interazioni (la loro scrittura) con ciò che evita di spingere troppo verso il proscenio un nodo che non di rado ha finito per appiattire le rappresentazioni.
Poniamo allora che il vero focus di L'immensità risieda nella tenuta dei legami interpersonali, specie rispetto a quell'immensità che non può davvero essere interamente esperita ("siamo mortali") e che deve dunque coesistere con la dimensione quantomeno familiare: ecco, proprio in tal senso il film - sceneggiato dal regista con Francesca Manieri e Vittorio Moroni - paga una costruzione dei personaggi non sempre convincente che va pure a condizionare la qualità, la giustificabilità, di diversi passaggi narrativi.
Il mondo adulto, soprattutto nelle figure di Clara e Felice, risulta tratteggiato ad esempio in maniera piuttosto monodimensionale o univoca, con padre e madre che si scansano poco dai ruoli presto attribuibili loro dal fruitore, mentre offrono maggiori soddisfazioni le interazioni tra bambini, più genuine e meno trasparenti in termini di funzionalità.
E sempre a proposito della scrittura, se l'amalgama di dramma e commedia risulta tutto sommato conseguito sul piano micro, quello più ampio tra sequenze pare meno raggiunto, soprattutto nella seconda metà del film: certi segmenti che, più che candidamente naïf, sembrano risolversi - anche a causa del commento sonoro - in un sentimentalismo spicciolo minano in particolare il mantenimento di un proficuo equilibrio emotivo.
[Luana Giuliani e Penélope Cruz in L'immensità]
Sempre sul medesimo versante, inoltre, Crialese e collaboratori provano a scombinare autorialmente una struttura altrimenti schematica e scheletrica: in primo luogo, il fugace intervento della dimensione onirica apre prospettive interessanti come quello del favolistico (in un film in cui peraltro si riflette a più riprese sul valore dell'immaginazione). Pure il ricorso al simbolismo, nonostante sia di quando in quando troppo scoperto, reca con sé intuizioni felici.
Proprio per mezzo di simili strategie, L'immensità riesce a inglobare considerazioni feconde circa la religione e la corporeità (connessa anche ma non solo all’identità) e, perché no, un discorso di classe, mentre merita una specifica attenzione - anche visto il suo peso quantitativo, forse eccessivo - il riferimento all'immaginario (!) televisivo e a Raffaella Carrà.
Passando poi al lato strettamente formale, il film marca un certo allontanamento rispetto a stilemi più smaccatamente autoriali già impiegati da Crialese, specie in Nuovomondo, ottimo compromesso tra esigenze di fruibilità e ricerca estetica.
Ora il regista adotta ne L'immensità un registro più medio, consapevolmente tale ma anche troppo medio, a volte quasi televisivo, facendo volteggiare la cinepresa con la necessaria mobilità ed evitando soluzioni innaturali anche in fase montaggio: osa solo di rado e in maniera isolata, favorendo una subordinazione tesa al rafforzamento della trama emotiva e cadendo talvolta nel convenzionale, per esempio proprio in rapporto alla dialettica mobilità/immobilità o alla scelta delle location.
Nel complesso, L'immensità è quindi un film non privo di sbavature e, cosa ben più rilevante, troppo prossimo ad un'idea di medietà che non pare interpretabile servendosi dell'aurea mediocritas oraziana: peccato, perché le aspettative non erano poche e il concorso veneziano avrebbe beneficiato di un nuovo, felice compromesso à la Nuovomondo.
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