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C’mon C’mon, il nuovo film di Mike Mills con Joaquin Phoenix e distribuito da A24 - una sorta di marchio di garanzia - dopo aver ammaliato la critica internazionale arriverà in Italia il 7 aprile grazie a Notorious Pictures.
Cosa ne penso di C’mon C’mon e perché credo dovreste assolutamente correre al cinema a vederlo?
[Il trailer di C'mon C'mon]
Bla bla bla
Da un certo punto della storia ha iniziato a sollevarsi il grido di una generazione inascoltata e da quel momento in avanti ogni generazione ha gridato sempre più forte fino a un presente incredibilmente chiassoso nel quale siamo dominati da dispotici oppressori del pensiero e dell’empatia, interessati soltanto a esercitare potere sulle cose e sugli altri uomini.
Non importa il prezzo. Non importa quanto indelebile sarà la cicatrice e la distruzione che si lasceranno alle spalle.
Non importa la loro eredità.
Importano solo loro.
È accaduto perché in questa strana storia relativamente eterna che è l’esperienza umana, nonostante il passare dei secoli, l’uomo è divenuto ancora più imperturbabile alla sua mortalità e nonostante la spaventosità di certe macchinazioni è più arrogante, insensibile e violento che mai.
Eppure c’è una generazione che ha smesso di gridare, poiché non è più tempo per reazioni violente, e sembrerebbe essersi evoluta a tal punto da riscrivere il proprio codice genetico con quella frase di River Phoenix colma di gentilezza, letta dal fratello Joaquin dal palco degli Oscar: “Run to the rescue with love and peace will follow.”
Nella Storia del Cinema esistono innumerevoli film che utilizzano l’infanzia per trovare soluzione a quell’orribile esperienza che è l’età adulta, ma C’mon C’mon di Mike Mills riesce a trovare una vena narrativa accorata e affascinante che passa prima di tutto per lo sguardo di una generazione estremamente a contatto con i propri sentimenti.
Joaquin Phoenix interpreta un produttore radiofonico impegnato in un progetto che lo vede intervistare dei bambini riguardo il futuro, cosa pensano del mondo che li circonda e come si rapportano con le circostanze del loro quotidiano, impregnando C’mon C’mon di un’aura di rara autenticità e di un messaggio per nulla scontato, considerando come spesso ci approcciamo ai bambini in quanto tali e mai come esseri umani dotati di una loro pura intelligenza e sensibilità.
La dinamica del lavoro del protagonista diventa molto più approfondita e interessante nel momento in cui si trova a dover badare al nipote di 9 anni, Jesse, mentre la madre Viv - Gaby Hoffmann - deve partire per prendersi cura del marito affetto da disturbo bipolare.
Johnny, il nostro protagonista, inizia a viaggiare quindi su due binari, spostandosi con Jesse da Los Angeles alla sua New York, per poi visitare la decadente Detroit e l’affascinante New Orleans, imparando a gestire il rapporto con un bambino fatto di sentimenti sovrastanti e la ricerca di un linguaggio più onesto per poterlo aiutare a elaborare quanto gli sta accadendo.
[C'mon C'mon racconta in parte anche le città nelle quali si ambienta e di alcuni segni che queste hanno lasciato e lasciano sui bambini che le abitano]
C’mon C’mon, come anticipato, potrebbe sembrare banale nei suoi intenti, eppure grazie a una serie di scelte artistiche e alla ricerca che la sceneggiatura mette in moto diventa una sorta di Manhattan dell’infanzia, un film melanconico e scanzonato capace di far sorridere, riflettere e commuovere il pubblico trattando temi riguardanti la crescita e l'importanza dell'espressione dei sentimenti attraverso una filosofia quasi da Studio Ghibli.
Poiché per quanto C'mon C'mon sia narrato da Johnny, che diventa la nostra voce radiofonica in scena, il suo sguardo adulto si piega alle pure e complesse dinamiche psicologiche ed emotive dei più piccoli, in particolare di quelle del nipote.
Sono loro, come accade sempre nei film dello studio giapponese, a rappresentare l’elemento più puro dell’essere umano, la soluzione alle complicazioni e alle derive che ci creiamo crescendo e inventando cose vili come la guerra, l’egoismo, il rancore, la disonestà verso l’altro e verso noi stessi e in linea più generale il distaccamento da ciò che rende il nostro tempo in questa realtà così sfaccettata e incerta nel suo presente come nella sua fine, tanto affascinante e meravigliosa.
A tal proposito l’idea di utilizzare interviste non sceneggiate, quindi reali, mettendo Joaquin Phoenix a duettare con i bambini che si sono prestati a C’mon C’mon, dona al film una purezza che nessuna sceneggiatura e nessuna sensibilità, nemmeno quella di Mike Mills regista e autore dello script, avrebbe potuto raggiungere.
Woody Norman, che interpreta il piccolo Jesse, riesce nel difficile compito di mettersi sullo stesso palco di Joaquin Phoenix e grazie al concept del film, mai stupidamente accondiscendente con i bambini, e alla capacità di Phoenix di reagire con grazia alla sceneggiatura e alla sua co-star, i due costruiscono una straordinaria chimica che fa dimenticare la sala, il pubblico attorno a voi e vi calerà in un racconto mai demenzialmente irrealistico nel suo contatto con il reale e il quotidiano, abbracciandovi con l’innocenza delle voci e la potenza del loro accorato messaggio sul presente e sul futuro.
[Per quanto semplice, C'mon C'mon è visivamente poetico ed efficace nella composizione delle immagini rispetto al racconto]
C’mon C’mon è stato girato con un formato di ripresa 1.66:1 in bianco e nero: quella che potrebbe sembrare una superficiale scelta per ricercare un effetto artistico diventa una ponderata scelta al servizio della narrazione, come in fondo dovrebbe sempre essere quando si prendono certe decisioni.
Il regista Mike Mills utilizza Manhattan come cornice e scena utile per raccontare la prima scoperta del mondo da parte di Jesse, gli mette in testa le enormi cuffie e il microfono dello zio Johnny e porta anche noi spettatori nelle sue orecchie quando sperimenta camminando per il boardwalk di Venice Beach.
C’mon C’mon è in bianco e nero in quanto memoria presente di un adulto e forse il ricordo sbiadito del domani di Jesse, ma testimonianza eterna del loro rapporto e della vicendevole crescita e ricerca di risposte a molte domande; domani, magari, qui bambini potranno rivedersi e ritrovarsi o riscoprirsi.
Poiché in C’mon C’mon i bambini portano grande saggezza ma sono anche raccontati e resi potenti nella loro voce e presenza nell’espressione del loro pensiero, delle speranze, delle fragilità e delle incertezze che covano e che spogliano il pubblico delle sue maschere e “bla bla bla” utili a evitare di confrontarsi con i propri sentimenti.
I bambini non sono l’elemento “magico” utile all’adulto per trovare soluzione ai suoi turbamenti, ma protagonisti di una scena che dominano e riempiono con la loro voce e presenza, passando anche attraverso Jesse, il più complesso e turbato di loro e ricordandoci quanto abbiano bisogno di noi e quanta responsabilità abbiamo nel gestire quel sentimento di affetto inesplicabile che nutriamo verso di loro.
L’intelligente uso del montaggio di Jennifer Vecchiarello, spesso contaminato da soluzioni tra il filmico e il documentaristico, è utile a dare ritmo e poetica al film, alternando la narrazione puramente cinematografica a quella più intimista e radiofonica del personaggio di Joaquin Phoenix.
C’mon C’mon cerca costantemente, riuscendoci, di far abbassare la guardia del pubblico e attraverso Johnny e Viv, i due adulti, costruisce i contrasti e il ponte empatico che inevitabilmente trovano in Jesse il loro centro nevralgico e una chiave universale per arrivare a tutti.
La tecnica utilizzata per girare C'mon C'mon, dalla scelta del formato alla fotografia di Robbie Ryan come il montaggio, per quanto semplicistici e mai alla ricerca di funambolici virtuosismi, si siede esattamente dove deve per dare al film quell’aria trasognata e onesta della quale ha bisogno, bilanciando perfettamente i due aspetti.
[Anche Venice Beach in bianco e nero assume un suo fascino in C'mon C'mon]
C’mon C’mon
C’mon C’mon è un film meravigliosamente costruito e sfruttando i dubbi sul presente, ma senza utilizzare tutto ciò che lo caratterizza spesso superficialmente, come i social media, riesce a toccare ogni spettatore con un racconto drammatico e leggero, portandolo a riflettere su cosa siamo e dove stiamo andando, cercando di sottrarlo dall’idea di essere il centro dell’universo per riportarlo alla più sana idea di essere un visitatore proveniente da qualche stella la cui unica opzione per provare l’esperienza umana è quella di crescerci dentro.
Passando per sentimenti complessi e paure che non dovremmo mai reprimere o soffocare.
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