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Gli 8 migliori vincitori del Festival di Cannes secondo CineFacts.it

La nostra classifica dei migliori film che hanno vinto la Palma d'oro al Festival di Cannes

Dal 1946 c'è una piccola città della Costa Azzurra, di appena 70mila abitanti, che diventa annualmente il centro del mondo cinematografico. 

 

Il Festival del Cinema di Cannes è un evento mediatico incredibile: ritenuto il festival cinematografico più importante al mondo, da oltre 70 anni lancia talenti e promuove il cinema mondiale; sono tantissimi i nomi che hanno partecipato e che hanno vinto e noi di CineFacts.it abbiamo provato a stilare la nostra classifica di quelli che riteniamo essere i migliori film che hanno vinto finora l'ambita Palma d'oro. 

Dal 14 al 25 maggio 2019 si svolgerà il 72° Festival e ci sembrava l'occasione perfetta per rileggere titoli che hanno a tutti gli effetti fatto la Storia del Cinema. 

 

Come nelle altre occasioni, per questa speciale classifica ogni redattore ha guardato la lista dei vincitori e ha poi stilato la propria classifica dei 10 film preferiti con una sola regola: erano concessi solo 3 film per ogni decennio. 

 

A quel punto si è quindi assegnato un punteggio: 10 punti al primo classificato, 9 al secondo, 8 al terzo e così via fino ad arrivare ad avere la classifica generale degli 8 Migliori Film Vincitori della Palma d'oro secondo la Redazione. 

 

Gli 8 film in questione sono indubbiamente dei capolavori ed è un peccato che alcuni titoli non siano riusciti ad entrare nella classifica finale. 

 

Ma proprio per farveli conoscere tutti, oltre che per correttezza, trasparenza e per la vostra eventuale curiosità, ecco le liste dei redattori singoli che hanno preso parte alla stesura di questa Top 8. 

 

Marco Batelli 

1. Il gattopardo 

2. La stanza del figlio 

3. Pulp Fiction 

4. Elephant 

5. Padre padrone 

6. Apocalypse Now 

7. Un uomo, una donna 

8. Roma città aperta 

9. The Tree of Life 

10. Il sapore della ciliegia 

________________________

 

Simone Braca 

1. Viridiana 

2. Taxi Driver 

3. Apocalypse Now 

4. Paris, Texas 

5. La dolce vita 

6. Dancer in the Dark

7. Il nastro bianco 

8. Pulp Fiction 

9. L'albero degli zoccoli

10. Amour 

________________________

 

Fabrizio Cassandro 

1. Underground 

2. Dancer in the Dark 

3. La classe operaia va in paradiso 

4. La dolce vita 

5. Paris, Texas 

6. Elephant 

7. Roma città aperta

8. Kagemusha 

9. Taxi Driver 

10. Pulp Fiction 

________________________

 

Simone Colistra 

1. Dancer in the Dark 

2. Taxi Driver 

3. Vite vendute 

4. Roma città aperta

5. Il nastro bianco 

6. Blow-Up 

7. Il terzo uomo 

8. La classe operaia va in paradiso 

9. Paris, Texas 

10. La dolce vita 

________________________

 

Morena Falcone 

1. Taxi Driver 

2. Apocalypse Now 

3. La dolce vita 

4. The Tree of Life 

5. Roma città aperta

6. Il pianista 

7. Amour 

8. Pulp Fiction 

9. La classe operaia va in paradiso 

10. Il gattopardo

________________________

 

Fabrizio Fois 

1. Roma città aperta

2. The Tree of Life 

3. Il terzo uomo 

4. Vite vendute 

5. La conversazione 

6. Pulp Fiction 

7. Otello 

8. Taxi Driver 

9. Giorni perduti 

10. Apocalypse Now 

________________________

 

Jacopo Gramegna 

1. Apocalypse Now

2. Pulp Fiction

3. Taxi Driver 

4. La classe operaia va in paradiso 

5. Il gattopardo

6. The Tree of Life 

7. La dolce vita 

8. Cuore selvaggio 

9. Blow-Up 

10. La stanza del figlio 

________________________

 

Lorenza Guerra 

1. La dolce vita 

2. Kagemusha 

3. Roma città aperta

4. Dancer in the Dark 

5. Paris, Texas 

6. Elephant 

7. The Tree of Life 

8. La ballata di Narayama

9. La classe operaia va in paradiso 

10. Il nastro bianco 

________________________

 

Lens Kuba 

1. Dumbo - L'elefante volante 

2. Apocalypse Now 

3. Viridiana 

4. Il pianista 

5. Cuore selvaggio 

6. Paris, Texas 

7. The Tree of Life 

8. La conversazione 

9. La dolce vita 

10. Giorni perduti 

________________________

 

Adriano Meis

1. Apocalypse Now 

2. The Tree of Life 

3. Taxi Driver

4. Roma città aperta

5. Lezioni di piano 

6. La classe operaia va in paradiso 

7. La dolce vita 

8. Il terzo uomo

9. Pulp Fiction 

10. Amour

________________________

 

Sebastiano Miotti

1. Amour 

2. Dancer in the Dark 

3. Taxi Driver

4. Apocalypse Now 

5. The Tree of Life 

6. Il nastro bianco

7. Pulp Fiction

8. Blow-Up 

9. Paris, Texas 

10. Lezioni di piano 

________________________

 

Pierluca Parise

1. Apocalypse Now 

2. Roma città aperta

3. Lezioni di Piano 

4. Vite vendute 

5. La dolce vita 

6. Il sapore della ciliegia 

7. Breve incontro 

8. Pulp Fiction 

9. Elephant 

10. La vita di Adele 

________________________

 

Angelo Pisani 

1. Taxi Driver 

2. La dolce vita 

3. Apocalypse Now 

4. Otello

5. Il gattopardo

6. La classe operaia va in paradiso 

7. Barton Fink - È successo a Hollywood 

8. Roma città aperta

9. Il pianista

10. The Tree of Life 

________________________

 

Martina Paffo 

1. Il nastro bianco 

2. Cuore selvaggio 

3. Viridiana

4. Taxi Driver 

5. Otello 

6. La dolce vita 

7. Apocalypse Now 

8. Roma città aperta

9. La classe operaia va in paradiso 

10. Il gattopardo

________________________

 

Jacopo Troise 

1. Apocalypse Now

2. Taxi Driver

3. La dolce vita 

4. L'albero degli zoccoli

5. Underground

6. Il sapore della ciliegia 

7. Miracolo a Milano 

8. Il terzo uomo

9. Giorni perduti 

10. Elephant 

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Teo Youssoufian

1. Apocalypse Now

2. Taxi Driver

3. La dolce vita 

4. The Tree of Life 

5. Pulp Fiction 

6. Roma città aperta

7. Kagemusha 

8. La classe operaia va in paradiso 

9. Il terzo uomo 

10. Dancer in the Dark 

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Posizione 8

La classe operaia va in paradiso

di Elio Petri, 1972

 

Quella del 1972 fu un'edizione del Festival di Cannes storica per il Cinema italiano, dato che ad aggiudicarsi la Palma d'oro furono, ex aequo, ben due pellicole nostrane: Il caso Mattei di Francesco Rosi e La classe operaia va in paradiso di Elio Petri.

 

Protagonista di entrambe le pellicole era uno dei più grandi attori della Storia del Cinema, quel Gian Maria Volonté che sulla Croisette fu premiato con una menzione speciale d'onore - e non con il Prix d'interprétation masculine, finito nelle mani di Jean Yanne per L'amante giovane - per il meraviglioso contributo fornito ad entrambe le opere. 

 

Nello specifico, al suo terzo lungometraggio con Petri, Volonté ha potuto dar forma a una nuova tappa all'interno del suo percorso recitativo in nome di un Cinema impegnato politicamente.

 

Dopo aver indagato le dinamiche omertose e poco limpide di un piccolo paesino siciliano in A ciascuno il suo e aver smascherato il rapporto morboso tra il potere e i suoi esponenti in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, la coppia Petri-Volonté ha rivolto la propria attenzione al mondo dei lavoratori e alle tensioni ad esso legate. 

 

La classe operaia va in paradiso dà voce al senso di alienazione degli operai nelle fabbriche, denuncia l'iniquità di un sistema fondato sul cottimo e fotografa, in maniera impietosa, i rapporti interpersonali che si sviluppano tanto all'interno quanto al di fuori dell'orario di lavoro.

 

Il tema dell'alienazione umana - che risulta essere senza tempo e quindi sempre di strettissima attualità - confluisce, infatti, anche nelle vite private e nei rapporti tra operai, studenti e sindacati fino a raggiungere l'intimità dei rapporti personali dei lavoratori.

 

La trasformazione del personaggio di Lulù Massa, che si ritrova suo malgrado dall'essere uno stacanovista a diventare uno dei simboli della lotta di classe, è metaforica di quanto la vita in fabbrica sia capace di mutare profondamente ciascuno degli uomini che la vivono.

 

Proprio Lulù è anche autore di uno dei più bei monologhi sui temi del lavoro e del rapporto uomo-macchina.

 

A impreziosire ulteriormente la pellicola ci sono anche le interpretazioni Mariangela Melato e Salvo Randone, oltre che lo straordinario lavoro scenografico realizzato da Dante Ferretti sulla Fabbrica Falconi di Novara e la splendida colonna sonora di Ennio Morricone

 

Forse, più di altri meravigliosi film in classifica, La classe operaia va in paradiso incarna al meglio quell'animo politicamente impegnato che ha sempre contraddistinto il Festival di Cannes rispetto agli altri Festival del mondo.

 

[a cura di Jacopo Gramegna]

 

Posizione 7

Dancer in the Dark

di Lars von Trier, 2000

  

"I used to dream that I was in a musical, ‘cause in a musical nothing dreadful ever happens."

 

Vincitore della Palma d’oro nel 2000, Dancer in the Dark è possibilmente il film più struggente del suo regista, il controverso Lars von Trier.

 

Selma, immigrata negli Stati Uniti, lavora come operaia in una fabbrica. 

Sta perdendo la vista: la sua è una condizione genetica, e a meno di sottoporsi ad un costoso intervento chirurgico il figlio avrà dunque lo stesso destino. 

 

Selma è anche una grande amante dei musical.

 

Il film stesso può ascriversi a pieno titolo nel genere… o meglio: von Trier affermò che in realtà sarebbe più corretto parlare di un “anti-musical”.

Si assiste a una lacerante contrapposizione tra la realtà, dominata da personaggi squallidi e meschini, e la dimensione sognante, candida e pura, della musica. 

 

Idealmente collocato al termine della cosiddetta “Trilogia del cuore d’oro”, Dancer in the Dark vive interamente di emozioni, di lacrime, di un trasporto che probabilmente raggiunge qui la vetta massima, nella filmografia del suo autore. 

 

Il carico emotivo dell’opera fu difficile da sostenere persino per il cast: von Trier ha raccontato che Björk abbandonò il set per tre giorni, al che lui per ripicca si rese indisponibile quando lei tornò sul set. 

 

Quando i due si reincontrarono per girare lei gli passò accanto sputando per terra, esclamando: 

"Mr. von Trier, io la disprezzo."

 

È probabilmente anche per questa ragione che Björk decise di terminare con questo film la sua avventura cinematografica, ottenendo peraltro il premio come Migliore Interprete Femminile al Festival di Cannes per la sua interpretazione. 

 

Un film semplicemente indimenticabile.

 

[a cura di Simone Braca] 

 

Posizione 6

Pulp Fiction

di Quentin Tarantino, 1994

 

Se per un regista esordire con un buona opera prima non è poi così difficile (ci sono molti validi esempi), l'ardua impresa sta nel confermarsi su ottimi livelli con il secondo lungometraggio: a distanza di venticinque anni si può affermare che Quentin Tarantino superò brillantemente tale esame con Pulp Fiction, vincitore della Palma d'oro al Festival di Cannes 1994.

 

Sua seconda pellicola dopo Le iene (1992), Pulp Fiction è un mosaico di storie a tinte pulp  ("romanzo popolare ricco di colpi di scena e di esibizioni esagerate di violenza e di sangue", secondo Treccani) che si intrecciano fra di loro, non seguendo l'esatto ordine cronologico degli eventi.  

 

In questo Tarantino ebbe un ottimo maestro da seguire: quel Sergio Leone che - dieci anni prima - tirò fuori dal cilindro C'era una volta in America, altro film in cui fabula e intreccio non coincidono.

 

Pur attingendo a piene mani dal passato (costruendo opere ricche di rimandi e citazioni), Tarantino riuscì a rinnovare il medium cinematografico, in tal modo, regalandoci sequenze e dialoghi divenuti instant classic della Settima Arte (qualcuno ha detto "Ezechiele 25:17"?).

 

Se poi a ciò si unisce la grande cura del cineasta originario del Tennessee nello scegliere canzoni pertinenti alla storia raccontata, ecco che il capolavoro è servito: da Misirlou di Dick Dale & The Del-Tones a You never can tell di Chuck Berry, Pulp Fiction è una gioia per gli occhi e per le orecchie.

 

In chiusura è d'uopo ricordare in questa sede cosa avvenne durante la premiazione al Festival di Cannes, nel maggio 1994: il presidente di giuria Clint Eastwood dichiara Pulp Fiction vincitore della Palma d'oro, Tarantino e il cast salgono sul palco e al momento del discorso una signora francese si distingue fra il pubblico, gridando alla scandalo.

Tarantino prima scruta la platea, poi - con estrema naturalezza - mostra il dito medio sorridendo!

 

Un episodio in cui è racchiusa tutta l'irriverenza di questo cineasta, che meritevolmente si è ritagliato un posto sull'Olimpo delle divinità cinematografiche. 

 

[a cura di Marco Batelli] 

 

Posizione 5

The Tree of Life

di Terrence Malick, 2011

 

Osservando lo sviluppo della filmografia di Terrence Malick si avverte chiaramente come il regista di origini siriane concepisca il prodotto cinematografico su due livelli differenti: il primo legato alla narrazione degli avvenimenti e della trama vera e propria, il secondo di più ampio respiro, profondo, metafisico e poetico.

 

Film dopo film, è come se Malick sia arrivato a spogliare la propria produzione filmica dal primo strato, quasi inutile, per arrivare al nocciolo della questione: chi è l'uomo? 

Qual è il nostro scopo sulla terra?

Riusciamo ad avvertire la potenza della bellezza che abbiamo intorno o la ignoriamo impunemente? 

 

L'apice di questo ragionamento - e forse del suo Cinema in generale - è The Tree of Life, pellicola uscita nelle sale nel 2011.

Il film è stato (ed è tutt'ora) al centro di dibattiti senza fine, oggetto di critiche tanto feroci quanto snob, oltre ad aver vinto meritatamente la Palma d'oro alla 64ª edizione del Festival del Cinema di Cannes.

The Tree of Life è OltreCinema.

Una mirabilia visiva che pungola la nostra memoria e beatifica il nostro sguardo. Un film toccante e potente che fa vivere allo spettatore ricordi legati più all'inconscio che alla razionalità. 

La carezza di tua madre quando eri piccolo, il cane che abbaiava quando passavo in bicicletta, il sole che filtra nella camera da letto, il tuo vecchio amico immaginario.

 

L'albero della vita è un'esplosione di sensazioni ed emozioni.

Alla storia di una famiglia della middle class statunitense degli anni '50 che vive un lutto si intrecciano le meravigliose immagini composte da Emmanuel 'Chivo' Lubezki, che raccontano la genesi dell'universo e lo sviluppo della vita sulla Terra.


Tutto è legato, tutto è consequenziale: bellissimo e terribile allo stesso tempo. Questa è la vita. 

 

L'albero della vita. 

 

"Volevo essere amato perché ero importante, un grande uomo... ma non sono niente. 

Guarda, lo splendore intorno a noi... alberi, uccelli... Ho vissuto nella vergogna, ho umiliato lo splendore e non ne ho notato la magnificenza... che uomo stolto!" 

 

[a cura di Adriano Meis] 

 

Posizione 4

Roma città aperta

di Roberto Rossellini, 1945

 

“La Storia del Cinema si divide in due parti: una prima Roma città aperta e una dopo”.

Basterebbe solo questa frase del regista austriaco Otto Preminger per stigmatizzare l'importanza di Roma città aperta e la sua natura di "spartiacque" nella Storia del Cinema. 

Appena tre mesi dopo la fine del secondo conflitto mondiale, il capolavoro assoluto di Roberto Rossellini esce nelle sale italiane e assurge ad autentico manifesto del nascente movimento neorealista.

 

Con Roma città aperta si esce dagli studi e si arriva nelle strade, nelle piazze, nelle campagne; non quelle ricostruite dalle grandi produzioni hollywoodiane, ma quelle reali, della vita di tutti i giorni. 

Cambiando lo scenario cambia anche l’interprete del film: non più il divo dalla faccia pulita, perfetto e orgoglioso nel proprio fascino immortale, ma l’uomo comune, l’individuo qualunque finalmente libero da ogni tipo di cliché, vincolo e requisito fisico.  

È il Cinema che si riappropria della storia, della verità, della vita.

  

Se Ossessione di Luchino Visconti fu il titolo che due anni prima inaugurò ufficialmente il fortunato filone del Neorealismo italiano, l'opera di Rossellini ebbe il merito ancora maggiore di far acquisire al movimento fama e risonanza mondiale, facendolo diventare di fatto uno dei periodi cinematografici più importanti del secolo scorso. 

Precursore anche del Cinema moderno, la cui esplosione avverrà solamente quindici anni dopo con l’avvento della Nouvelle Vague, Roma città aperta è stato dunque il primo, clamoroso tentativo di imboccare una strada nuova, lontana anni luce dagli stilemi classici d’oltreoceano, qualcosa che potesse costituire non solo una forma di intrattenimento (com’era stato fino a quel momento), ma soprattutto, grazie alla sua natura quasi documentaristica, un motivo in più per riflettere sulla società e i cambiamenti ineluttabili, tragici o meno, a cui essa è sottoposta.

 

È Cinema che si fa quindi quindi occhio investigativo e che, consapevole delle proprie possibilità, diventa strumento in grado di offrire una riflessione, ancora prima di una visione. 

Quando uscì Psyco nel 1960, molti critici restarono sconvolti dal fatto che la protagonista della storia venisse fatta morire dopo appena mezz’ora di film.

In Roma città aperta Rossellini inscena la medesima operazione quindici anni prima di Alfred Hitchcock: Pina, memorabile personaggio interpretato da Anna Magnani, muore sotto i colpi dei fucili dei soldati tedeschi nella prima parte del racconto. 

 

È un Cinema che si prefigge l’obiettivo di fare un’istantanea della società e del tempo.

Per questo motivo la morte di Pina, seppur nella sua tragicità, non può che essere necessaria: i personaggi sono di passaggio e si muovono su una scacchiera ben più grande, che è quella della Storia, vero punto di interesse dell’indagine rosselliniana. 

Questa considerazione verrà esplicitata anche in Paisà e Germania anno zero

 

I tre film della trilogia antifascista sono accomunati proprio da questa caratteristica: non raccontano semplicemente una storia, ma sono piuttosto un insieme di singoli momenti, che pongono personaggi e spettatori sullo stesso piano: al cospetto della realtà.

 

Il principio causa-effetto, tipico del Cinema narrativo hollywoodiano, viene qui messo in crisi e sostituito dunque con uno stile semplice quanto diretto, che mira principalmente a evidenziare la nuova funzione del Cinema: non più mezzo di intrattenimento delle masse (o non solo, almeno), ma un’occasione di riflessione e di indagine storica, che parla allo spettatore attraverso nuove immagini, intrise di autenticità.

 

[a cura di Pierluca Parise]

 

Posizione 3

La dolce vita

di Federico Fellini, 1960

 

“La dolce vita di Fellini è troppo importante perché se ne possa parlare come si fa di solito di un film.”

 

Queste parole di Pier Paolo Pasolini riflettono appieno l’immensità dell’opera di Federico Fellini.

Il regista romagnolo, infatti, è entrato prepotentemente nella Storia del Cinema sviluppando un excursus sfaccettato e complesso nelle viscere della società del nostro paese.      

 

L’Italia dei primi anni '60 è alle prese con il miracolo del boom economico e sta lentamente ripagando i debiti di un difficile dopoguerra. 

Lo stile di vita è cambiato: è diventato più sontuoso e sfrenato, si differenzia da quello rappresentato dal neorealismo fino alla metà degli anni '50.

Tuttavia, si tratta solo di pura apparenza tesa a mascherare il disagio che gli italiani continuano a vivere ogni giorno, in una continua ricerca di una propria dimensione. 

Fellini se ne accorge e inizia a scrivere a proposito una sceneggiatura insieme ai compagni di sempre Ennio Flaiano e Tullio Pinelli e colui che diventerà in futuro un suo stretto collaboratore: Brunello Rondi.

Il risultato è una struttura non lineare divisa in episodi che ricorda un viaggio dantesco nei vari gironi infernali.

 

Il protagonista è Marcello Rubini (Marcello Mastroianni), un giornalista di gossip che sogna di diventare uno scrittore, degna allegoria di un paese che vorrebbe essere ciò che non è. 

L’importanza del film risiede nella capacità con la quale Fellini riesce a rappresentare perfettamente il disorientamento del personaggio principale nella decadenza di quello che è uno spaccato della società contemporanea.

 

Marcello Rubini rappresenta l’ipocrisia di un’Italia attratta solo da quello che non ha, dal lusso e dai piaceri effimeri, invece di valorizzare ciò che già possiede e che tende inevitabilmente a trascurare.

Nella pellicola ne è esempio il rapporto superficiale che il protagonista mantiene con la fidanzata (Yvonne Furneaux) e il padre (Annibale Ninchi).      

 

Le feste, i locali notturni, le attrici, le orge e le amanti per Marcello non sono altro che momenti fugaci di piacere che non portano mai alla felicità tanto agognata. 

Una sorta di circo, insomma, simbolo molto caro al regista.

A proposito di quest’ultimo emblema, un altro dettaglio del film che denota il genio felliniano è la scena della spettacolarizzazione televisiva del falso miracolo, netta anticipazione della patetica comunicazione mediatica dell’Italia che sarà.

 

Nella pellicola è presente un altro tema che è una costante della società italiana: la religione.

La dualità sacro-profano accompagna per tutto il viaggio il protagonista, il quale è in costante ricerca di valori e della purezza della semplicità al fine di riscattarsi.

Purezza che potrebbe trovare nella scena finale, ma che decide di non raggiungere - o non riesce a riconoscere - perché ormai rassegnato a preferire il degrado morale in cui vive. 

La dolce vita quindi diventa nel Cinema italiano uno spartiacque che rompe definitivamente con le fondamenta del neorealismo e anzi lo supera, definendo una caratteristica che sarà poi ripresa più volte dal regista: la realtà viene sconfinata e si apre il mondo del sogno, dell’illusione. 

 

Perché in fondo cosa rappresenta la vita mondana se non soltanto una debole illusione rispetto a quello che è la vita reale?       

 

[a cura di Jacopo Troise] 

 

Posizione 2

Taxi Driver 

di Martin Scorsese, 1976

 

"You talkin' to me?"

 

Chi non ha mai sentito, o addirittura ripetuto, questa domanda mimando di mirare davanti a sé con una pistola? 

Ripetere frasi diventate famose senza conoscerne la provenienza è ciò che accade quando un personaggio diventa icona e un film diventa cult. 

È il caso di Taxi Driver e del suo inedimenticabile Travis Bickle.

 

Ci troviamo nella New York degli anni '70, la guerra del Vietnam è finita e, anche se nel mondo continua a essere pubblicizzata un'immagine degli Stati Uniti come prosperosi e ricchi di possibilità, la realtà che ci viene mostrata da Scorsese è decisamente diversa: sporcizia mentale e morale inquinano una Grande Mela marcia le cui sorti, secondo il protagonista, potrebbero essere risollevate solo con un diluvio universale epuratore. 

 

Travis è un ex marine reduce del Vietnam che, tornato in patria e soffrendo di insonnia cronica, inzia a lavorare come tassista notturno. 

 

Questa occupazione lo porterà a conoscere il lato più oscuro della città in cui ad agire ci sono figure che si celano alla luce del giorno e vengono percepita da Travis quasi come demoni. 

 

"Vengono fuori gli animali più strani, la notte: puttane, sfruttatori, mendicanti, drogati, spacciatori di droga, ladri, scippatori. 

Un giorno o l'altro verrà un altro diluvio universale e ripulirà le strade una volta per sempre."

 

Il suo disagio nei confronti di una società in cui non si riconosce (dalla quale non viene riconosciuto e non viene visto), il sentirsi "uomo del sottosuolo" e l'alienazione lo porteranno a prendere la drastica decisione del farsi giustizia da sè, di trasformarsi nel Diluvio che egli stesso auspicava.

 

Palma d'oro a Cannes e 4 nomination ai Premi Oscar tra cui Migliore Attore Protagonista per un Robert De Niro brillante, in una delle sue più celebri prove da attore del MetodoMigliore Attrice non Protagonista all'allora tredicenne Jodie Foster perfetta nel suo ruolo di prostituta minorenne. 

 

Altra nomination quella per la Migliore Colonna Sonora al compositore Bernard Herrmann che, deceduto prima dell'uscita del film, ci ha lasciato come ultimo regalo le strade newyorkesi con un indimenticabile sassofono che vi risuona malinconico.

 

Lo sceneggiatore Paul Schrader (nomination ai Golden Globe per la Migliore Sceneggiatura), ha voluto trasporre in territorio americano Lo straniero di Albert Camus condendo il tutto con alcune Memorie dal dottosuolo di Fëdor Dostoevskij e un pizzico de La nausea di Jean-Paul Sartre.

Impossibile non menzionare la fotografia di Michael Chapman: le luci delle insegne notturne, i colori morbidi della squallida casa di Travis, umidità in riflessi e sangue rosso vivo.

 

Il risultato è Storia del Cinema.

 

[a cura di Morena Falcone] 

 

Posizione 1

Apocalypse Now 

di Francis Ford Coppola, 1979

 

L'inferno. 

Apocalypse Now si potrebbe riassumere semplicemente con questa parola. 

Un film che racchiude in sé il terrore dell'uomo di riconoscere se stesso, la consapevolezza delle proprie terribili azioni, il confronto con la Morte, la presa di coscienza di quello che siamo e che non possiamo cambiare. 

 

Tratto liberamente dal romanzo Cuore di tenebra di Joseph Conrad, il film sposta l'azione durante la guerra del Vietnam, il conflitto di cui gli Stati Uniti si vergognano di più e che ha praticamente dato vita a un filone a parte nella cinematografia a stelle e strisce. 

La missione del capitano Willard è ritrovare il colonnello Kurtz, un tempo militare modello a un passo dal diventare generale, che ha ormai disertato e si è auto-nominato re di un'enclave di disperati e indigeni in una zona della giungla cambogiana. 

 

Per Willard la risalita in chiatta lungo il fiume sarà l'occasione per rivedere tutto ciò che di tremendo e grottesco possa essere la guerra, e di riflettere sulle azioni di un uomo che agli occhi di tutti è impazzito ma che, forse, nasconde in sé qualcosa di sensato. 

Il bene e il male, l'onore e la follia mischiati insieme, i confini si fanno labili e la disperazione si mischia con il senso del dovere, l'incubo si mescola con il sogno. 

 

Vincitore della 32ª edizione del Festival del Cinema di Cannes, con la spettacolare fotografia di Vittorio Storaro e un cast che annovera Martin Sheen, Robert Duvall, Dennis Hopper, un giovane Harrison Ford e un giovanissimo Laurence Fishburne, che mentì sull'età al provino dichiarando qualche anno in più per poter recitare nel film. 

E soprattutto un imponente, ingombrante, gigantesco, adombrante e oscuro Marlon Brando

 

Il suo Kurtz è, per chi scrive, una delle figure più enigmatiche, affascinanti, ipnotiche e magnetiche della Storia del Cinema. 

Quel volto nascosto nell'ombra che conosce il proprio destino e lo accetta, quel modo di centellinare ogni sillaba pronunciata, quello sguardo proiettato nel vuoto ma che si infila dentro l'anima di ognuno di noi è impossibile da dimenticare o da osservare con leggerezza. 

Una sensazione di ineluttabilità permea l'intera pellicola, con tocchi di umorismo improbabile e subito dopo momenti drammatici lancinanti, un viaggio dentro la giungla che diventa un viaggio infernale dentro di noi, l'impressione di sbagliare facendo qualcosa di giusto, la corsa verso un destino inevitabile. 

 

Apocalypse Now è Cinema, e va oltre il Cinema. 

Il film necessitò di quasi un anno e mezzo di riprese, due anni di montaggio, costando innumerevoli problemi in loco dovuti agli elicotteri che appartenevano all'esercito delle Filippine, alle intossicazioni alimentari che colpirono la troupe e agli eccessi di alcol e droga sul set, all'infarto subito da Martin Sheen e alla piena crisi di Coppola che per terminare il film ipotecò la casa, si separò dalla moglie e fu a un passo dal suicidio. 

Tutto ciò si respira guardandolo e quello che c'è intorno al film diventa parte del film stesso. 

Il film "di guerra" che forse la rappresenta meglio in tutte le sue sfaccettature, un'opera d'arte immensa che rimane addosso e intere sequenze che non hanno eguali nella Storia del Cinema tutto. 

Un'allucinazione su pellicola, pessimista e realista insieme, folle ma concreta, umida come la pioggia e rovente come il napalm, dolce come una lettera della mamma e agghiacciante come un colpo di machete sul collo. 

 

E ancora più che l'inferno, citando le ultime parole di Kurtz: l'orrore... 

L'orrore. 

 

[a cura di Teo Youssoufian]

 



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