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#top8

8 film cupi e soffocanti che ti tolgono la gioia di vivere

Una classifica di film da guardare solo se avete un'incredibile forza interiore che vi aiuti a sopportarli

Il Cinema è per molte persone sinonimo di escapismo e divertimento, un'occasione di intrattenimento che viene scelta per passare un paio d'ore senza pensare ai drammi e ai problemi della vita quotidiana. 

 

Ma esistono anche tanti altri tipi di Cinema. 

Uno di questi è quello di cui andiamo a parlare nella Top 8 scelta dai nostri supporter per questo mese. 

 

Film dolorosi, angoscianti, difficili da digerire e che richiedono una notevole forza interiore per essere sopportati, nonché del tempo necessario a metabolizzarli a dovere. 

 

Come sempre in ogni posizione troverete le indicazioni in merito alle piattaforme streaming o agli store dove i film sono disponibili per la visione. 

Prima di lasciarvi alle 8 opere di questa classifica mi preme però ribadire un concetto: preparatevi psicologicamente prima di vederli. 

 

Poi magari fateci sapere cosa ne pensate. 

 

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Posizione 8

Un anno con 13 lune

di Rainer Werner Fassbinder, 1978

 

Nella sterminata filmografia lasciataci in eredità dalla breve carriera di Rainer Werner Fassbinder, spesso caratterizzata da una visione del mondo cinica e spietata, Un anno con 13 lune spicca per malinconia e disperazione. 

 

Realizzato freneticamente come abitudine del regista - in appena 25 giorni, giusto il tempo di passare rapidamente a un nuovo progetto - in risposta al suicidio dell'amante e amico Armin Maier, Un anno con 13 lune descrive la triste vicenda di Elvira Weishaupt, donna trans che si è sottoposta a un cambio di sesso per amore non corrisposto dell'imprenditore Anton Seitz e ora in preda a una profonda crisi esistenziale.

 

Nel corso delle due ore di film, Elvira, accompagnata dalla sola amica rimasta, una prostituta di nome Zora, intraprende un viaggio alla ricerca di risposte alla domanda "dov'è andato tutto storto?" che la porterà a visitare i luoghi più significativi della propria vita: dal mattatoio in cui lavorava nella vita precedente (in una sequenza difficile da dimenticare) all'orfanotrofio in cui è cresciuta, fino agli spazi liminali degli uffici della Francoforte ricostruita del dopoguerra e alla famiglia che ha abbandonato.

 

Un anno con 13 lune figura tra i massimi risultati della messa in scena fassbinderiana, in cui il compianto regista permea ogni inquadratura di malinconia e angoscia esistenziale, aiutato da una prova sofferta e partecipata dello straordinario dell'habitué Volker Spengler, che interpreta Elvira con tale trasporto che arriva a improvvisare gli strazianti monologhi della donna. 

 

Il dramma di una persona echeggia quello di una nazione segnata da un passato violento e da un futuro incerto, dove la crisi economica e politica fa vigere ferreamente "il diritto del più forte", per citare un altro capolavoro del regista bavarese.

 

Il titolo, che richiama un particolare fenomeno astrologico che ricorre solo sei volte in un secolo e che ha un impatto negativo sulle persone malinconiche, contribuisce a espandere la disperazione del film da un piano personale a uno universale.

 

Come a dire che per le persone più fragili non c'è né scampo né una vera via di fuga.

 

Disponibile per il noleggio e l'acquisto su Google Play 

 

[a cura di Marco Lovisato]

 

Posizione 7

Le onde del destino

di Lars von Trier, 1996

 

Le onde del destino è il film che nel 1996 inaugura la Trilogia del cuore d'oro di Lars von Trier, completata poi da Idioti (1998) e Dancer in the Dark (2000).

 

Negli anni '70, su una desolata isola nel nord della Scozia, Bess (Emily Watson) si sposa con Jan (Stellan Skarsgård). 

 

Lei è una giovane devota, vergine e un po' naïve, lui uno svedese che lavora su una piattaforma petrolifera, estraneo alle strette regole della comunità calvinista a cui Bess appartiene.

 

A causa di un incidente sul lavoro, Jan rimane paralizzato: proprio su questo espediente von Trier imposta il suo scavo, mostrandoci fino a che punto il sentimento di Bess - e la sua pulsione sessuale - possano stagnare fino a inacidirsi, trasformandosi in azioni che spaccano i tabù morali della comunità di appartenenza.

 

Vessata da un contesto retrogrado e schiava della propria immane, maledetta bontà, la protagonista arriva a prostituirsi per il marito, trasformandosi sempre di più in una penitente, mentre il rapporto con la fede si sgretola e l'ombra lunga di un'immensa tragedia inizia ad allungarsi sulla sua storia.

 

Emily Watson catalizza l'attenzione e impersonifica al meglio la protagonista pura di cuore, adulta tardiva in un mondo di precetti.

 

Stellan Skarsgård scolpisce uno Jan memorabile.

 

Il film è diviso in sette capitoli e girato secondo alcuni dei dettami di Dogma 95, movimento d'avanguardia fondato da Thomas Vinterberg e dallo stesso von Trier, che predilige la camera a mano e rinuncia agli effetti visivi, se non per le copertine dei vari capitoli, accompagnate da pezzi pop-rock anni '60 e '70.

 

Il film ha vinto il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes nel 1996.  

 

Disponibile su Amazon 

 

[a cura di Simone Beretta]

 

Posizione 6

Ossos

di Pedro Costa, 1997

 

La svolta più radicale della filmografia di Pedro Costa origina da un fatto extra-cinematografico assolutamente non marginale: dopo aver girato il tourneriano Casa de Lava a Capo Verde, ex-colonia portoghese (diegeticamente) raggiunta partendo da Lisbona, il cineasta rientra nella capitale con il compito di recapitare delle lettere ad alcuni immigrati capoverdiani.

 

Così scopre Fontainhas, slum devastato dalla povertà: al quartiere - ora scomparso in seguito a un deplorevole processo di gentrificazione - e ai suoi abitanti dedicherà anzitutto la trilogia composta da Ossos, No Quarto da Vanda e Juventude em Marcha.

 

Davanti al degrado la risposta non è però direttamente politica: il turning point non conduce verso il documentario (che si vorrebbe) riproduttivo né verso la fiction impegnata; non poteva farlo, perché Costa ha alle spalle Straub e Huillet e soprattutto António Reis, regista di etnofiction la cui influenza sul Cinema portoghese degli ultimi decenni è difficilmente sovrastimabile.

 

Alla sofferenza si risponde semmai con un rigore inflessibile che, scartando comode adesioni al documentario o alla fiction, trasfigura esteticamente una realtà sociale che non può essere cristallizzata in modo paternalistico o irriflesso; trasfigurare significa qui interpretare, non tradire, a meno che interpretare non sia sempre tradire.

 

In Ossos il cammino è anche sensoriale e avvicina alle immobili tragedie che costellano, definiscono, guastano le esistenze di quattro personaggi: trasfigurare significa approfondire le sventure, elaborare le sciagure rivelandone - creandone - possibilità di (ri)scrittura artistica che aprono a comprensioni politicamente orientate.

 

Il nero (digitale) non è un eccesso drammaturgico che rischia di ruzzolare nel sentimentalismo kitsch, ideologicamente problematico, ma l'esito di un processo di messa-in-luce, direbbe Jean-Luc Nancy, che poggia su una somiglianza e insieme è attraversato da una dissomiglianza. 

 

Il significato può allora interrompersi per un attimo e l'immagine, affare est-etico, bucare lo schermo.

 

Disponibile su Amazon    

 

[a cura di Mattia Gritti]

 

Posizione 5

9

di Shane Acker, 2009

 

Un uomo cuce una bambola di pezza. 

Tessuto l’ultimo pezzo di stoffa, l’uomo muore. 

 

La bambola, che ha il numero 9 (Elijah Wood) ricamato sulla schiena, prende vita e si incammina in quello che sembra uno scenario post-apocalittico. Qui incontra un’altra bambola, simile a lui ma con un 2 (Martin Landau) al posto del 9, che gli spiega di conservare con le unghie e con i denti il talismano custodito nel suo ventre; i due non fanno in tempo a dirsi altro perché vengono attaccati da una feroce bestia meccanica: 2 viene catturato mentre 9 si salva e, sconvolto, indaga sull’accaduto, incontrando così altre bambole numerate. 

9 non sa che significato abbia il talismano, tantomeno sa perché lui sia in qualche modo “vivo”: sa solo che deve salvare 2 a ogni costo.

 

9 è un fantasy distopico ambientato in una terra distrutta e desolata, ove le uniche tracce di umanità sono detriti e rottami di quello che fu, un tempo, un mondo fiorente. Non sembrano esserci segni di vita, a parte le bambole di pezza e queste macchine che le attaccano ferocemente; in qualche modo 9 e gli altri 8 sono degli obiettivi, anche se la ragione non risulta chiara fino alla fine del film. 

Si susseguono scontri su scontri in atmosfere cupe e dinamiche e tutto (personaggi, oggetti, ambienti, persino il cielo) è dominato da marroni e grigi, donando una sensazione tangibile di sporco, di vecchio e arrugginito: una terra in rovina da ormai troppo tempo. 

Alcune scene, non violente ma inquietanti, suggestionano parecchio perché improvvise e inaspettate, soprattutto se si considera che in Italia il film ottenne il visto "per tutti".

La pellicola lascia lo spettatore in bilico tra sentimenti negativi anche in quei pochi momenti dove c’è speranza per un futuro migliore. 

Il design è semplicissimo e ripetitivo, sia per questioni di budget sia di stile: oltre a pochissimi scenari, tutti simili tra loro, invasi da metalli, ruggine e polvere, anche le fattezze dei nove personaggi si somigliano.

Innegabilmente e senza volerlo, anche il tempo ha contribuito a rendere 9 ancora più weird di quanto già non fosse con l’invecchiamento precoce della CGI.

 

Il punto forte di 9 non è tanto la sua scrittura - che forse si esauriva completamente nel minutaggio nell’omonimo cortometraggio del regista, altrettanto consigliato – quanto la costante sensazione di smarrimento e angoscia data dall’insieme di tutti gli elementi sopraelencati.

  

Disponibile per il noleggio e l'acquisto su AppleTV e Amazon Store

 

[a cura di Eris Celentano]

 

Posizione 4

...e ora parliamo di Kevin

di Lynne Ramsay, 2011

 

Tematiche intense e complesse, mancanza di appigli morali e un disarmante senso di impotenza sono le caratteristiche che rendono ...e ora parliamo di Kevin un’opera estremamente disturbante e sconfortante. 

 

Il quarto film della regista Lynn Ramsay ha come protagonista Eva (Tilda Swinton), una donna che dopo la nascita del suo primo figlio Kevin (Ezra Miller) scopre una sensazione di rifiuto nei confronti di un bambino che già dai suoi primi mesi di vita sembra covare risentimento nei suoi confronti e che, crescendo, si rivela disturbato, crudele e manipolatore, ingannando tutti sulla sua vera natura a eccezione della madre.

 

 

A contribuire alla sensazione di smarrimento e angoscia nello spettatore è la struttura del film, fatto di continui flashback che ne spezzettano la narrazione e che, con il passare dei minuti, aumentano la certezza che la tragedia stia per abbattersi sui protagonisti. 

 

Tre giorni prima del suo sedicesimo compleanno, infatti, Kevin, le cui azioni sono diventate con il passare degli anni sempre più perverse, uccide prima suo padre e sua sorella e poi compie una strage nella sua scuola, trafiggendo diversi studenti a morte con arco e frecce.

 

Le sue azioni portano Eva, interpretata magistralmente da una Tilda Swinton che trasmette con angosciante realismo i sentimenti dolorosi e viscerali della protagonista, a interrogarsi sulle sue responsabilità, alla disperata ricerca di una rivelazione che dia un senso a quello che è successo.

 

Una risposta però non c’è.

 

“Credi che lo sappia? Non ne sono più sicuro”, dirà Kevin alla madre nella scena finale del film.

 

Ed è questa l’ultima angosciante immagine che dipinge ...e ora parliamo di Kevin, quella dell’impotenza di fronte a eventi dolorosi e inspiegabili, l’incapacità, fino all’ultimo, di Eva di comprendere suo figlio.

 

Disponibile su TIMVision 

 

[a cura di Giulia Polidoro]

 

Posizione 3

Tirannosauro

di Paddy Considine, 2011

 

Per la quasi totalità del film ogni singola linea di sceneggiatura è votata a rendere ogni aspetto il più possibile spiacevole e non concede agli spettatori nessuna forma di escapismo: Tirannosauro di Paddy Considine è cruda realtà o quantomeno cruda possibilità e questo ci intimorisce, sconcerta e abbatte.

 

Joseph (Peter Mullan) è un uomo solo, cinico e spinto da impulsi rabbiosi. 

 

È un alcolizzato violento, Joseph - cantano i The Leisure Society lungo la pellicola - "è guasto".

 

Non sarà certo l'incontro con Hannah (Olivia Colman in uno dei suoi primi ruoli cinematografici importanti, nel ruolo di una negoziante devota) a cambiarlo. 

Eppure le loro esistenze si toccano: alle spalle di Hannah si cela un'orribile realtà di violenza domestica, il passato di Joseph potrebbe giocare la sua parte di attenuanti.

 

Tristezze espresse in forme incomparabili si attraversano, ma qualcosa sfugge. Non c'è ragionevolezza né spinta al miglioramento nella violenza di Joseph così come nella passività di Hannah.

 

Dovranno dibattersi insieme nella melma grigia dei sobborghi di Leeds per osare concedersi di sperare. 

 

Diversi film sono duri e amari, ma il ricordo di questo resiste negli anni come una visione particolarmente indigesta. 

 

Attori semplicemente molto credibili, trovate sceniche di una cattiveria sensazionale - mai sopra le righe e quindi ancor più atterrenti - scenografie funeree, sciupate, asfissianti e un titolo misterioso finché non si riempie di significato: tutte componenti che impreziosiscono un film che può far male. 

 

Disponibile su Amazon

 

[a cura di Sebastiano Miotti]

 

Posizione 2

Il sospetto 

di Thomas Vinterberg, 2012

 

Nel Cinema l'angoscia è notoriamente rappresentata e trasmessa attraverso una particolare estremizzazione dell'immagine.

Una manipolazione soprattutto visiva di ciò che lo spettatore vede sullo schermo che presuppone spesso una precisa scelta di luci e colori e una distorsione ottica dell'inquadratura.

Non è sempre così e Thomas Vinterberg lo sa bene: tra i numerosi sentimenti, l'angoscia è certamente uno dei più abili a insinuarsi tra le trame di una sceneggiatura, nei dialoghi affidati agli attori e nelle sfumature recitative di questi ultimi.

Un film come Il sospetto, che nel 2012 ha permesso a Mads Mikkelsen di ottenere il sacrosanto premio per la Migliore Interpretazione Maschile al Festival di Cannes, dimostra ampiamente quanto il dipanarsi di una trama attraverso il non-detto contribuisca in modo sostanziale a creare un'atmosfera tenebrosa, nel paradosso di una luce del giorno che è invece presenza costante, senza il bisogno di portare all'eccesso gli elementi costitutivi dell'immagine fotografica.

Sullo sfondo il dramma degli abusi infantili verso il quale è ingiustamente costretto a fare i conti un maestro d'asilo, ritenuto responsabile di molestie su minori a causa di una confessione, ingenuamente vendicativa e profondamente sofferta, di una bambina della scuola nonché figlia del suo migliore amico. 

Vinterberg dissemina il film di silenzi e sguardi, di una non-comunicazione che è funzionale all'intensificazione di un dubbio, di una possibile risposta che lo spettatore trova in ogni caso inaccettabile. Il regista danese però si focalizza non tanto sul sospetto, che pure è il propulsore di una paranoia contagiosa, quanto sulla vera e propria caccia che prende avvio.

In questo senso, il titolo originale del film - Jagten, "la caccia" - risulta più calzante e appropriato. 

Lasciando da parte (non è questa la sede) la questione di genere che emergere prepotentemente nello sviluppo del film, delineando con coscienza uno scontro tra universi maschili e femminili, nella dimensione della caccia il sospetto diventa un'arma da puntare contro il sospettato, trattato come un animale selvatico da allontanare ai margini del bosco.

Vinterberg allora rende insopportabili tutti i luoghi di comunità e aggregazione, come il supermercato e la chiesa del quartiere, trasformandoli in territori pericolosi e ghettizzanti, estendendo quel senso generale di oppressione fino al finale, nell'inquietante consapevolezza che tutto, in qualsiasi momento, può tornare come prima.

 

Forse.

 

Disponibile su My Movies One e per il noleggio e l'acquisto su AppleTV, Google Play e Rakuten TV 

 

[a cura di Matilde Biagioni

 

Posizione 1

Il sacrificio del cervo sacro

di Yorgos Lanthimos, 2017

 

Durante la visione di un film, il senso di soffocamento può insinuarsi a più livelli.

 

Sul piano estetico, con atmosfere cupe insistite, o sul piano etico, nei comportamenti imprevedibili dei personaggi che si allontanano dalla morale comune: lo iato che si crea tra ciò che ci si aspetta dalle loro azioni e quello che realmente accade, è esattamente lo spazio dove fiorisce l’angoscia.

 

Il sacrificio del cervo sacro di Yorgos Lanthimos, con Colin Farrell, Nicole Kidman e Barry Keoghan, rientra appieno nella seconda categoria.

Attingendo alla sua formazione greca, Lanthimos mette in scena una tragedia moderna in cui l’antico mito di Ifigenia diventa strumento per il racconto di una catastrofe.

 

L’elemento disturbante irrompe su una tela bianca perfetta - la carriera di uno stimato chirurgo con una famiglia senza difetti - squarciando il senso di pacificazione che lo spettatore si illude di aver conquistato. 

Fin dal principio però, a ben guardare, Lanthimos ammanta le scene di un sinistro presentimento, acuito dalla colonna sonora, un presagio di morte che si fonda proprio sull’estrema precarietà di un’armonia così poco plausibile. 

 

Il chirurgo Steven incontra spesso Martin, un giovane ragazzo che riversa su di lui una sete "paterna", dapprima misurata poi sempre più fuori controllo, fino alla maledizione lanciata sui figli che dà avvio al colpo di teatro. 

 

Lanthimos gioca con la lucidità dello spettatore mescolando raziocinio e suggestione, scienza e incantesimo, servendosi del topos della colpa ereditata di padre in figlio.

 

È lì che si avvita il nodo più asfissiante: di fronte alla paralisi di una scelta impossibile, eppure inevitabile, che Steven dovrà compiere, lo spettatore scivola in un labirinto emotivo senza vie di fuga.

 

Disponibile su Prime Video 

 

[a cura di Giulia Berillo]

 



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