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Friends: The Reunion - Recensione: e quella volta che sono stato parte di un fenomeno pop

Cosa significa Friends: The Reunion, ma soprattutto perché siamo arrivati a desiderare la celebrazione della sitcom e cosa ha significato viverne il presente?

Non so bene da cosa dipenda, ma odio terribilmente gli addii dei fenomeni pop, soprattutto quando hanno un bel finale e, in tutta franchezza, essendo questi una manciata all’interno del già di per sé ridotto spettro, questi tendono a risultare ancora più dolorosi.

 

Una lama che penetra fredda nel cuore, mentre il tuo assassino, che è anche il tuo amante, ti guarda in lacrime sparire dietro gli occhi sempre più vitrei. 

 

Troppo dramma? 

Non avete ancora letto niente.   

 

Perché tale dolore diventa insostenibile quando questi addii si sincronizzano con il tempo e il tempo è un dio solenne e inesorabile, il cui potere è quello di farti affondare nelle sue sabbie, i cui granelli sono sinapsi a comporre il tessuto delle memorie, la fattura dell’anima, la sostanza di cui sono fatti i sogni.   

 

Disturbo il Bardo forse per fare tanto rumore per nulla (sicuramente è così) ma anche perché la mia melodrammatica introduzione vuole calcare la mano sull’idea dietro il privilegio di essere contemporanei dei fenomeni pop storici.

Di avere memoria cosciente, e non solo anagrafica (vi avviso che anche le repliche non valgono), di quando qualcosa cresce nel cuore di te spettatore, come in quello di milioni di altri, creando connessioni, generando amicizie e feeling (insultandosi con il linguaggio segreto di Monica e Ross), fino a quando l’impensabile si sarebbe manifestato davanti ai tuoi occhi, il momento in cui ti avrebbero strappato l’amore dal petto.   

 

Troppo dramma?

Bene!  

 

State soffrendo?

No?!

Siete proprio esseri abbietti e senza cuore.   

 

Si parla ovviamente di Friends e di Friends: The Reunion, operazione nostalgia, tanto agognata, e dedicata a una delle sitcom più importanti e iconiche della storia della televisione.   

 

Quella che state leggendo non è una recensione, ma un elaborato dramma a incrociare l’analisi di un ragazzo cresciuto a pane e nutella, Cinema e televisione e di come Friends sia stato il suo primo amore da piccolo schermo.

 

 

 

È il 1994 e sulle chart internazionali la band irlandese Cranberries spopola con la ballata rock Linger, portando un’intera generazione di ragazzi e ragazze foderati di jeans, camicie di flanella e borchie di pelle a strusciarsi con passione e disperazione adolescenziale, lasciando trionfare i propri umori.   

 

Sulla NBC va invece in onda la prima stagione di Friends, sitcom creata da David Crane e Marta Kauffman il cui fulcro è raccontare la vita di un gruppo di sei giovani amici Newyorkesi, affondando in quel momento della vita in cui gli amici sono la tua famiglia.   

 

I protagonisti sono Jennifer Aniston, Courteney Cox, Lisa Kudrow, Matt LeBlanc, Matthew Perry e David Schwimmer

La serie diventa immediatamente un successo stratosferico, portando in televisione una situazione totalmente inedita per il pubblico.   

 

Friends si discosta dal racconto della famiglia americana (Willy, il principe di Bel-Air, La tata, Otto sotto un tetto, Pappa e ciccia, Tutti amano Raymond) tanto quanto dagli show gimmick (o da comico televisivo) incentrati su un protagonista eccentrico e i suoi comprimari, generalmente già in età adulta (Frasier, Seinfeld e affini).   

 

La serie di Crane e Kauffman parla invece direttamente a una generazione di 20enni e di adolescenti, mostrandogli un mondo a loro familiare, parlando un linguaggio moderno, aprendo al sesso, alla ricerca dell’amore e alle vicissitudini comuni a chiunque stia cercando di trovare una propria strada, creando una cassa di risonanza potentissima per un pubblico solitamente escluso dalla narrazione televisiva, aprendo un dialogo generazionale molto potente.  

 

Diventa impossibile ignorare il concept di base della serie: Friends.

Il titolo è il miglior pitch e il miglior biglietto di presentazione che lo show possa avere.

 

Monica, Chandler, Ross, Rachel, Joey e Phoebe sono un gruppo di amici che, per quanto diversi, sono in egual misura protagonisti e specchio di una fetta del pubblico, creando istantaneamente un porta d’ingresso senza barriere, per lo spettatore.   

 

Friends diventa immediatamente un successo globale e nel 1997 arriva in Italia sulla Rai, in un periodo storico talmente distante, per alcuni di voi, considerando la spaventosa velocità con la quale è cambiata la società, da divenire molto difficile darvi idea di cosa è stato entrare a contatto con la serie.

 

 

 

Siamo nel 1997 e R. Kelly è nelle classifiche e nel cuore di un esercito di ragazzini con la sua I Believe I Can Fly, canzone protagonista della colonna sonora di Space Jam, film nel quale un mito vivente, Michael Jordan, si prende un ennesimo pezzo d’immortalità pop.

 

Inutile dire che questa piccola introduzione, nel contesto di oggi, suona abbastanza terribile, consci delle vicende dietro il documentario Surviving R. Kelly.

Siamo nel 1997, quindi non ne sappiamo assolutamente nulla.

Rimanete con me.  

 

Nel momento in cui Friends arriva sulla Rai il sottoscritto ha circa 10 anni ed è molto lontano dallo strusciamento di flanella, dall’applicazione del concetto di “limonata” e dal riuscire a entrare in empatia con un gruppo di ventenni di New York.  

 

Tuttavia Friends offre qualcosa di totalmente alieno, poiché non si era mai avuta occasione di dare uno sguardo al presente (anche se questo l'avrei capito solo crescendo) attraverso la vita di quelli che ai miei occhi non sono adulti con le rughe e i capelli brizzolati, ma dei ragazzi.  

 

Non sono più nel salotto di ultratrentenni altolocati, nell’attico o nella casa di periferia di over quaranta con figli più grandi di me o della mia età a fare da gimmick e non sono nemmeno chiamato a ridere di situazioni ciclicamente comuni a un format televisivo che, in quel momento, cominciava a essere piuttosto stantio, per quanto sempre funzionale allo scopo di intrattenere.   

 

Friends propone la vita di ragazzi giovani il cui linguaggio è per me una vetrina su qualcosa che, da ragazzini e da adolescenti, si tende a desiderare: l’emancipazione dai propri genitori e dalla propria condizione di bambino o adolescente.

 

 

 

Siamo negli anni 2000 e il mondo ha appena superato la paura, piuttosto mal riposta, del Millennium bug.

 

Nelle chart internazionali impazza Kryptonite dei 3 Doors Down, mentre io, tredicenne, inizio una relazione stretta con i Red Hot Chili Peppers e il loro album Californication, ripudiando i compagni di classe che trovavano nei Blink 182 un gruppo fuori dagli schemi.  

 

MTV Italia è nel pieno della primavera televisiva italiana che non tornerà mai più e mentre nuovi show e fenomeni si affacciano sul panorama internazionale, pronti a diventare cult, io spendo larga parte del mio tempo a guardare le chart musicali dell’emittente, rimanendo affascinato dalla creatività dei videoclip e dal fenomeno che rappresentano.

 

Blue degli italianissimi Eiffel 65 spopola insieme a The Real Slim Shady di Eminem, altro caposaldo di quell’epoca, ma io sono innamorato follemente di Otherside, del gruppo californiano capitanato da Anthony Kiedis

 

Matrix è da poco arrivato in home video e mio padre, un geek professionista, compra uno dei primi lettori dvd per pc, una copia del film, che guardo a rotazione, e la prima stagione di Friends.  

 

Sono in quella che credo si possa definire pre-adolescenza: sono innamorato follemente di Monica Geller, cosa che in quegli anni mi portò a conoscere Wes Craven e la saga di Scream, e mentre la serie ha raggiunto, in Italia come negli USA, la sesta stagione, la mia cameretta è popolata da una raccolta ufficiosa della serie e un poster enorme, dedicato allo show, riempie una parete. 

 

 

[Il poster era proprio questo]

 

Il fenomeno Friends, dopo sei stagioni, è fresco come una rosa e il modo più veloce ed economico per fare binge watching è registrare la serie durante la messa in onda.   

 

Divento un discreto professionista, talmente attento e dedicato allo show da riuscire a stoppare e riprendere la registrazione saltando al secondo le interruzioni pubblicitarie.

La mia è un’operazione di tutto rispetto e nonostante il rudimentale stato di Internet dell’epoca, online è possibile trovare le copertine dell’edizione VHS della serie, permettendomi di dare dignità a quella collezione ufficiosa.   

 

I rewatch della serie sono costanti e nei momenti in cui lo show si fermava in attesa della nuova stagione, io ho la mia personale videoteca televisiva, composta da VHS da 180 minuti e da quei primi DVD della prima stagione.

Nonostante il passaggio del tempo e l’evoluzione subita dai protagonisti di Friends, lo show ha conservato la sua freschezza e sostanzialmente è rimasto inimitato, anche se i primi cloni o wannabe avevano fatto la propria comparsa sulla scena.   

 

Monica e Chandler sono una coppia, Ross e Joey sono sempre più macchiettistici ed estremizzano il loro carattere, come tutti i personaggi della serie, e Rachel è sempre più superstar dello show, ormai così famoso da contare i cameo di personaggi di fama sempre più crescente, toccando attori di Hollywood di primo piano.   

 

I rewatch hanno stampato nella mia memoria momenti di puro genio comico televisivo, creando il mito delle poltrone di Chandler e Joey, del canale porno gratuito, della statua del cane, dei pantaloni di pelle di Ross, di Gatto Rognoso, del quiz sfida per vincere l’appartamento di Rachel e Monica, del bastone realizzato con le bacchette del ristorante cinese per stuzzicare l’uomo nudo, delle lamentele di Mr. Heckles, dei balletti di Chandler e di un’infinità di altri momenti.

 

 

 

Siamo nel 2005, è l’anno di Boulevard of Broken Dreams dei Green Day, pezzo che inquadra perfettamente i miei 18 anni, fase ormonale assoluta di qualsiasi essere umano di quell’età, mentre alcuni vanno pazzi per Gwen Stefani e la sua Hollaback Girl.   

 

Giusto un paio di anni prima, su MTV, aveva fatto il suo esordio Scrubs - Medici ai primi ferri, sitcom che ridefiniva nuovamente il linguaggio televisivo, proponendosi di parlare alle nuove generazioni ed evolvendo oltremodo il concetto base della serie di David Crane e Marta Kauffman.   

 

Si dice però che il primo amore non si scorda mai e io, su Rai Due, sono soggetto al primo cuore infranto da piccolo schermo, in contemporanea con un evento epocale di portata internazionale: Friends, poco prima del compimento dei miei 18 anni, finisce.   

 

Con quell’ultimo episodio, perfetto e melanconico nel chiudere il percorso di quelli che ora non sono più ragazzi e ragazze ma uomini e donne che hanno trovato l’amore e il loro posto nel mondo, si chiude un’epoca e un fenomeno pop di dimensioni, all’epoca, incalcolabili.   

 

Le viscere provano un senso di accartocciamento simile alla perdita del grande amore, mentre una parte degli spettatori, soprattutto quelli più adulti e disillusi rispetto all'idea di legarsi all'intrattenimento, come in The Truman Show, senza nemmeno aver dato tempo alle lacrime di seccarsi sulle guance, afferra il telecomando e cerca altro da vedere. 

 

 



Io, invece, non più ancorato alle VHS, assisto al finale rannicchiato sul divano, cercando di dare concretezza all’idea che non rivedrò più quel gruppo di amici al quale avevo voluto tanto bene e che, in un certo senso, mi avevano mostrato cosa poteva essere quella vita che per me non era ancora iniziata davvero, ma alla quale mi stavo solo affacciando.   

 

I miei amici, come quelli di milioni di spettatori nel mondo, avevano dato il loro saluto, per continuare il loro cammino in uno spazio immaginifico che non era giusto raccontare, perché non era la storia, perché non era più tempo e perché, come si è detto, il tempo è un dio inesorabile.   

 

Cosa avrei dovuto fare?

Come si affronta il senso di abbandono di una serie che è stata con te per quasi 10 anni della tua esistenza?

Non sarà molto per un uomo adulto, ma per un diciottenne, quella, è quasi mezza vita e una vita molto importante.   

 

Friends ha rappresentato il primo fenomeno televisivo pop così interconnesso a un pubblico giovane e variegato che, nel frattempo, aveva percorso la stessa vita dei protagonisti o, come nel mio caso, era in procinto di diventare un giovane uomo, come direbbero alcuni.

Andava oltre l'idea di creare un rassicurante show cristallizzato nel tempo, la sitcom a mettere i suoi protagonisti in un crescendo di situazioni sempre più assurde, preoccupandosi invece di evolvere la vita dei protagonisti, spostandola sempre più verso l'ingresso in una nuova stagione della vita.  

 

Quei protagonisti eravamo noi, le nostre nevrosi, le nostre paure, i nostri ridicoli fallimenti e attraverso loro era possibile combattere ansie sociali e trovare rimedio ai piccoli veleni quotidiani, sedendosi ogni giorno, per anni, nel loro salotto o nel caffé che avremmo sempre voluto visitare, con la speranza di trovarli lì.

 

La fine di Friends diventa quindi un vuoto che, fortunatamente, sarebbe stato relativamente colmato a breve, anche se non in egual misura, ma che allo stesso tempo ha lasciato nel mondo dell’intrattenimento un solco pop distintivo e dalla voce unica.  

 

In un certo senso il mondo della televisione ha un Avanti Friends e un Dopo Friends e come Twin Peaks ha fatto scuola e generato molti emuli; alcuni anche di grande successo e con concept affascinanti, ma che in qualche modo sono stati afflitti da difetti congeniti creati da showrunner incapaci di gestire gli archetipi base: uno su tutti la storia infinita tra Ross e Rachel.

 

Tutti hanno sofferto e tifato per Ross e Rachel, tutti hanno riso della lettera di diciotto pagine fronte e retro, e tutti sono stati male aspettando che i promessi sposi della TV americana arrivassero al lieto fine.   

 

Un pilastro narrativo proposto da Scrubs, anche se non gestito al meglio, e del quale How I Met Your Mother mina le fondamenta, generando uno dei finali più controversi della Storia della televisione moderna e che non è riuscito tanto quanto quello di Friends o di Scrubs.   

 

Nel corso degli anni la fanbase della serie ha chiesto film e revival con insistenza, spinti dal trauma da abbandono causato dalla serie e ignari di quanto deleterio sarebbe riportare in scena personaggi che non hanno più nulla da dire e la cui ricomparsa porterebbe probabilmente a nulla di buono, rovinando qualcosa che invece è perfetto così com’è.

 

 

 

Siamo nel 2021, i Måneskin sono sul tetto d’Europa e nelle chart internazionali si fa strada il nuovo singolo di Billie Eilish e la sua evoluzione d’immagine, mentre io rimango ancorato al nuovo disco dei The Black Keys che, detto tra noi, non mi sta particolarmente illuminando le giornate.   

 

HBO Max porta in televisione Friends: The Reunion, uno degli eventi più attesi dalla fan base dello show che, nel frattempo, è cresciuta grazie a una nuova generazione di spettatori che ha scoperto gli anni ‘90, capendo molto poco e moralizzando, inizialmente, ogni segmento della serie, mentre il mondo attorno a loro brucia per mano di personaggi poco raccomandabili.   

 

Fortunatamente abbiamo le sitcom a distrarci dalle nostre peggiori paure e in un mondo di singoli che aspirano a coltivare la cultura dell’io senza soluzione di continuità, nulla sembra più necessario di Friends, una serie su quel periodo della vita in cui gli amici diventano la tua famiglia e l’ego non è il carburante dell’individuo.   

 

Lungo l’ora e quaranta minuti della Reunion, la produzione crea l’unico prodotto possibile per un’opera televisiva così popolare e, quasi, perfetta, senza raccontare troppo il mito di Friends con soluzioni documentaristiche, senza entrare nelle vite dei sei protagonisti appannando il focus dell'operazione, utilizzando gli ospiti come catalizzatori della figura pop che è diventato lo show al fine di rappresentare il suo impatto attraverso le generazioni, per concentrarsi su quella che è una festa, una cena a casa di amici che non vediamo da troppo tempo.

Amici che, per quanto invecchiati, sembrano non aver perso per nulla il loro smalto, mostrando la stessa verve di quando eravamo soliti sederci con loro sul divano del Central Perk.   

 

Come anticipato, sceneggiare un ritorno dei personaggi, significherebbe sottrarli forzatamente al loro percorso narrativo e al concept dell’intero show, al solo scopo di dare al pubblico qualcosa che, a conti fatti, molto probabilmente non arriverebbero nemmeno a gradire, poiché incredibilmente lontano da quella cosa che era entrata così bene nella loro memoria.

 

 

 

 

Friends: The Reunion è malinconico, maledettamente divertente e riporta a galla il dolore dato dall’abbandono della serie, sfruttandolo come apertura e chiosa, pur utilizzando una nota leggera e spensierata lungo tutto lo speciale, lasciandoci appesi a un fenomeno televisivo pop la cui portata continua a sfuggire alla nostra comprensione, poiché siamo tutti troppo emotivamente investiti in Friends.

 

Chi scrive, per esempio, fa maledettamente fatica a vedere il finale e nel corso di questi anni, a fronte di molteplici rewatch, anche casuali, ha sempre evitato l'ultimo episodio con la grazia di Catherine Zeta Jones in Entrapment, dando solo uno sguardo ai minuti finali una volta sola - esclusa la visione alla quale sono stato forzato, da dei bruti, guardando la Reunion. 

 

La serie è forse figlia di una formula alchemica produttiva che, considerando il livello di complessità delle produzioni odierne sembra impossibile da replicare, lasciandoci inconsolabilmente tristi all’idea che Friends, per molti, non esiste come esperienza televisiva, un po’ come non esistono per la mia generazione la scoperta, data dalla contemporaneità e l'impatto che ne comporta, di David Bowie, dei Rolling Stones, di Star Wars al cinema o di Twin Peaks in televisione.

 

 

Sono eventi di un tempo che non abbiamo vissuto davvero, del tutto o solo parzialmente, ma solo collateralmente. 

Possiamo studiarli, ma più il nostro distacco dall’evento aumenta, più la nostra capacità di capirne l’impatto si assottiglia.    

 

Sono fenomeni astrali irreplicabili affidati al caso, alle probabilità matematiche, agli scherzi del destino, al karma… scegliete voi la versione che più vi aggrada.   

 

In questo 2021 così diverso rispetto alla mia situazione spostata di vent'anni indietro nel tempo, sono ritornato a guardare Friends e per quanto la memoria sia in grado di anticipare ogni segmento dello show, mi scopro a ridere sguaiatamente delle situazioni, delle battute, appassionandomi ancora alle storie e alle situazioni.   

 

Quello che lascia Friends: The Reunion è un pezzo di nostalgia a riaccendere il sentimento verso una stupenda storia d'amore televisiva, rannicchiati sul nostro divano a contemplare come quel pezzo di vita se ne sia andato in una ventina di minuti lunghi dieci anni, portandoci a realizzare come la spasmodica ricerca di un racconto televisivo sempre più adulto, complesso e figlio degli effetti nostalgia e delle mode, abbia sacrificato la qualità migliore dell’intrattenimento pop, contribuendo, in qualche modo, all’allontanamento degli individui.  

 

Friends era uno show su un gruppo di amici che crescevano insieme, sempre presenti, soprattutto quando fuori la pioggia cominciava a cadere.   

 

Oggi sta piovendo da troppo tempo e ormai siamo in troppi senza più amici. 

 

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