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Nothing or Everything - Recensione: paradossalmente - Torino Film Festival 2018

Dalla Corea del Sud, il film che mi ha maggiormente colpito al TFF36

Cosa è noia in un'opera d'arte?

Probabilmente la inadeguatezza nell'utilizzo dei mezzi espressivi espressa invece con sicurezza: un'inadeguatezza al quadrato. 

 

Questa conformazione procura lo scollamento della compartecipazione dello spettatore con l'opera, il quale si chiede per quale ragione debba rimanere ancorato spazialmente in quella esperienza.

La noia ha decisamente a che fare con la gabbia corporea. 

 

E così questa pellicola, tutt'altro che noiosa, però, paradossalmente.  

 

 

 

 

Poco meno di un'ora e mezza nella quale viene spesa una manciata di parole appena e di azioni.

 

Due amiche camminano lungo un sentiero in un bosco. Sfiorano le cortecce degli alberi, fanno scorrere la punta delle felci fra le dita.

Sono riprese di spalle ma la camminata e la postura rivela già ciò che la loro espressione, in seguito, griderà: soffrono.   

 

Nient'altro che suoni ambientali, fisiologici, e fisiologico-ambientali (i passi).

Poi si parlano, e apprendiamo che stanno elaborando un lutto. Il più arduo.   

 

Camminano, lo sguardo appeso a mezz'altezza, cieco (è facile seguire un sentiero, non richiede alcuna attenzione, ed è perciò che si può guardarsi dentro).  

Poco altro se non, a volte, la loro immaginazione che chiama alla mente scenari di autolesionismo o che, più propriamente, mostra a noi spettatori in un montaggio alternato la loro interiorità.

È nel silenzio del logos (della parola razionale) che le due amiche si comprendono.

 

Bastano poche frasi, invece, per stabilire un abisso fra le due.

Quella di chiunque altro è una lingua straniera quando si soffre. La vicinanza corporea è invece perfettamente adeguata al compito.   

 

Ritornare alla dimensione naturale (nei boschi, per esempio) diventa imprescindibile per la guarigione: si deve trattare di una sorta di "ritorno all'inorganico" - come lo chiamerebbe il filosofo Ernesto De Martino - dal quale ci difendiamo costantemente nella costruzione di una struttura identitaria unitaria, della narrazione coerente di sé, ma che invece può accoglierci nell'istante della disgregazione più profonda, nell'incapacità di dirsi "io".

Altro non è una crisi depressiva. 

 

Ad un tratto un mascherino ovale viene posto di fronte all'obiettivo chiudendo la prospettiva centripeta sul dolore delle due ragazze, e pilotando il nostro sguardo in direzione dei loro visi.

Non rivelerò la ragione precisa del loro malessere.

 

Vi invito invece a seguirle in questo percorso, pieno di tempi dilatati in cui fare fluire i propri pensieri e ricordi, un po' come accade con i carrelli a seguire di Béla Tarr, nei fangosi sentieri della Puszta ungherese.     

 

Posso infine affermare che non abbia mai esperito più chiaramente che in questa circostanza, al cinema, il sentimento del sublime: una categoria della filosofia estetica che approfondirò senz'altro più avanti in qualche Cinema e Filosofia

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2 commenti

Drugo

5 anni fa

peccato, grazie comunque 👍

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Sebastiano Miotti

5 anni fa

Non trovo informazioni ufficiali in merito, mi spiace.
Comunque con ogni probabilità non uscirà nelle sale, purtroppo

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