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Palazzina Laf - Recensione: il quadro verista di una storia italiana

Palazzina Laf è il titolo del primo film da regista di Michele Riondino e racconta la storia vera di un reparto confino dell'Ilva, con una verosimiglianza disturbante e tremendamente realistica 

Non è mai semplice raccontare storie vere e drammatiche senza tediare lo spettatore: Palazzina Laf ha come tematica centrale la condizione dei lavoratori dell'Ilva, che venivano alla fine degli anni '90 trasferiti in una Palazzina dal presidente Emilio Riva, e sembra riuscire nell'impresa di raccontare la verità con un ritmo sicuramente lento, ma senza annoiare. 

 

Lo stesso Michele Riondino, protagonista insieme a Elio Germano e regista del film, ha dichiarato a Vanity Fair che il film è volutamente "politico, ideologico e di parte".

 

Più che raccontare una storia, però, Palazzina Laf te la sbatte in faccia con profonda prepotenza eppure con minimalismo. 

 

 

[Il trailer di Palazzina Laf] 

 

 

Ci troviamo a Taranto nel 1997, Caterino Lamanna (Riondino) è un uomo semplice, un operaio che vive in una masseria e lavora all'Ilva.

 

Sembrerebbe un personaggio comune, ma sarà presto coinvolto in qualcosa più grande di lui. 

Caterino sente parlare sempre di questa Palazzina Laf (acronimo di laminatoio a freddo) dove, a differenza degli operai come lui che muoiono di fatica ogni giorno, una serie di dipendenti dell'azienda sono autorizzati a non fare nulla e vengono pagati lo stesso.

O almeno questo è come da fuori è considerata la faccenda. 

 

Per questo motivo Caterino chiede di essere trasferito alla Palazzina Laf e, una volta lì, non si fa scrupoli a diventare una spia che riferisce ai piani alti tutto quello che "complottano" gli ex lavoratori, dei nullafacenti dal suo punto di vista, e nonostante sappia di danneggiarli crede di essere nel giusto. 

Palazzina Laf è una storia che si potrebbe definire non solo vera, ma verista. Non è ambientata in Sicilia, ma racconta la storia di una serie di "malavoglia".

 

Così come la famiglia Toscano di verghiana memoria, questi lavoratori sono accusati di essere malavoglia, cioè di non avere voglia di fare, quando invece sono stacanovisti, ma sfortunati. 

 

 

[Una scena di Palazzina Laf] 

 

 

Anche gli operai dell'Ilva sono vinti, umili e sconfitti da qualcosa e lottano in un mondo in cui la "roba" detta le leggi.

 

Se per Giovanni Verga si chiama roba, qui si chiama profitto.

Ma il profitto, gli esuberi, sono solo delle scuse del dottor Basile (un eccezionale e odiosissimo, in questo film, Elio Germano) per emarginare i lavoratori scomodi, seppur qualificati. 

 

Nel verismo il nemico principale di questi vinti era la "fiumana del progresso", qui il progresso non esiste, perché a Taranto non si lascia che ci sia crescita, ma solo desolazione. 

Il tratto caratterizzante della letteratura verista era l'impersonalità e, per quanto il regista lo definisca di parte, questo film è in realtà impersonale nella misura in cui non vuole condizionare con della retorica spicciola il punto di vista dello spettatore, ma lascia che siano le scene e le situazioni esposte a parlare da sole. 

 

Racconta i fatti, con pochi dialoghi e molte scene emblematiche, paragoni, panorami desolanti e una colonna sonora molto efficace a opera di Diodato che, pur essendo nato ad Aosta, ha origini tarantine. 

 

[Il video ufficiale della canzone colonna sonora di Palazzina Laf] 

 

 

Del rusticano proprio del verismo Palazzina Laf eredita i riferimenti alla natura, ma essendo un medium visivo il Cinema più che alle descrizioni ovviamente si affida alle immagini. 

 

Da qui la numerosa presenza di correlativi oggettivi, ovvero oggetti che servono a esprimere uno stato d'animo o una situazione senza dichiararla verbalmente. 

Lamanna è un personaggio statico, reso immobile della sua stessa ignoranza, forse per questo il film a tratti risulta lento, perché sono le cose e le immagini intorno a lui che invece creano la sola dinamicità. 

 

Ci sono tratti eccessivamente lunghi del film, altri brevi ma irrinunciabili.

Un esempio è il momento in cui Lamanna incontra una pecora che esala l'ultimo respiro e nella scena dopo vediamo un collega dentro la palazzina respirare nel medesimo modo. 

 

Nella parte centrale, poi, il film incuriosisce in quanto si muove per antitesi e contraddizioni, come le sigarette che Lamanna fuma in continuazione e le immagini desolanti, contrapposte ai fiori piantati dentro la Palazzina Laf che germogliano solo quando la verità è svelata. 

Perché la verità è che la Palazzina Laf è una prigione tremenda dove i lavoratori diventano alienati, ostili perfino a se stessi, impazziscono.

Parlano solo quando devono esprimere la propria frustrazione - e molti neanche allora - pregano, fumano, inventano giochi con le cose più assurde perché gli viene tolto qualsiasi oggetto esterno, sono come dei confinati. 

 

Il dottor Basile, reso mirabilmente da Elio Germano, è il classico datore di lavoro e suggerisce nello spettatore la triste consapevolezza della banalità del male. Consapevolezza che Lamanna non può avere, e alla fine per lo spettatore diventa impossibile prendersela con lui. 

Non è vittima, non è un eroe, si "sa soltanto quello che non è".

Palazzina Laf è un film a mio dire claustrofobico, che inghiotte lo spettatore in una morsa tremenda da cui vorrebbe a tutti i costi uscire. Non è un film piacevole e non deve esserlo, perché ritrae il lato oscuro di tutti noi.

 

Dipinge un quadro fatto di sofferenza, indignazione, voci inascoltate, superficialità.

 

 

[Michele Riondino e Elio Germano in Palazzina Laf] 

 

 

Alla fine giustizia, forse.

 

Non bisogna però pensarlo come un freddo documentario per quanto realistico, perché ha momenti comici in cui non si può che ridere, ma più che di comico si dovrebbe parlare di umorismo amaro. 

Palazzina Laf è infatti spesso grottesco e a tratti divertente, specialmente per la presenza forte del dialetto.

Nei quadri veristi e realisti in generale la veridicità del linguaggio è molto importante; qui è l'elemento più tragicomico di tutte le scene dialogiche. Il tarantino, che è corredato ovviamente da sottotitoli, risuona nei toni più scurrili e fa ridere, poi riflettere. 

 

Questo perché tutto è grottesco, ma mai macchiettistico, come accade spesso quando si adopera il dialetto in film e serie TV: la recitazione del cast è molto naturale, è tutto eccezionalmente spontaneo e semplice. 

Pronto a descrivere un mondo che sembra bucolico e idilliaco come la Palazzina Laf, ma come la Palazzina Laf si rivela colmo di lati oscuri e di drammatiche contraddizioni.

 

Non sono in questo universo i vinti di Taranto beati in una vita semplice; la loro semplicità è proprio quella che li distrugge, vorrebbero semplicemente lavorare e invece sono fermi perennemente finché, come la pecora che Lamanna vede morire, non dovranno accasciarsi a terra.

È la fotografia triste e verista di un caso tutto italiano, che come suggeriscono i titoli di coda non è l'unico dato che i reparti confino esistono tuttora.

 

Palazzina Laf non è un documentario, ma è come se lo fosse, e più che una ricerca di intrattenimento forse vederlo è proprio un dovere. 

 

[articolo a cura di Silvia Argento] 

 

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