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Zaman Dark - Recensione: tra le rovine del capitale - RNFF 2023

Cannibalismo e stupefacenti nel Libano assediato dal capitalismo

Attivo dal 2001 e lontano dai palcoscenici più luminosi, anche considerata la sua vocazione indubbiamente sperimentale, Christophe Karabache incappa con Zaman Dark in una serie di problematicità che tendono invero a manifestarsi in ben altre fasi di carriera. 

 

Un primissimo presupposto riguarda il cosiddetto production value, categoria interpretativa che riguarda elementi direttamente tangibili e formali che non intercettano il (o si traducono sul) piano estetico in modo lineare: si tratta di un aspetto che, proprio in relazione alla discorsività estetica e alle conseguenze sullo spettatore, meriterebbe considerazioni autonome.

 

[Il trailer di Zaman Dark]

 

 

In questo suo ultimo lavoro, presentato alla XXI edizione del Ravenna Nightmare Film Fest, la (relativa) povertà dei mezzi si scontra con la vertiginosa ambizione dell'autore, e non (solo) perché Karabache non riesca a scavalcare o risignificare il dato prettamente materiale attraverso un disegno coerente.

 

In qualche maniera, e ciò vale soprattutto come riflessione metodologica di ordine più ampio, le generali finalità del programma estetico complicano la lettura poiché a farsi strada, con la sua carica decostruttiva, è la questione delle intenzioni autoriali. 

Un paio di occhiate frettolose: (quanto) è legittimo inferire - costruire, ri-costruire, ricostruire - questa intenzionalità? Accettata, su quel terreno che tradizionalmente ha consentito di fondare la distinzione tra formale e stilistico, la costruzione della figura dell'Autore, come impostare le possibilità di giudizio critico?

Magari mettendo a sistema intenzionalità ipotizzata - senza che ciò possa ovviamente far posto all'arbitrarietà soggettivistica - e risposta fruitiva (dunque autointerpretata, propriamente ripetuta) agli stimoli effettivamente rinvenuti nella materialità filmica?

 

A latere: è chiaro che una simile operazione di rinvenimento non è un immergersi nell'ignoto, un procedere indiziario che si muova alla cieca, anche perché ciò non pare filosoficamente ammissibile; nella maggioranza (totalità?) dei casi, a dover essere messo in rilievo è il contesto (ermeneutico) come coesivo in grado di fondare storicamente l'intelligibilità.

 

Nel ritmo (specie quello interno alle inquadrature), nella composizione del quadro imperniata sul décadrage, nella ripetizione ossessiva, Zaman Dark richiede un'attenzione assai particolare, qualcosa che in una maniera consonante ha domandato già, tra i tanti e con esiti opposti, Liberté di Albert Serra; proprio nell'impostare un percorso del genere, tuttavia, collide fatalmente con una mobilitazione di alcuni segni (quasi certamente involontaria) che sembra renderlo impraticabile.

 

In altre parole: il tipo di spettatorialità implicato, ovviamente in linea con le aspirazioni sperimentalistiche, impedisce di accantonare le sbavature al fine di ottenere una depurazione ideale rivolta a ciò che, di fatto, potrebbe trovare una propria coesione in una determinata ipotesi interpretativa.

 

 

[Un frame da Zaman Dark]

 

 

Messa da parte la questione non secondaria del production value, specie vista la prefigurazione della fruizione, a mio avviso Zaman Dark continua comunque, ahimè, a soffrire.

 

Questa è la sinossi fornita dal festival: 

"Il Libano è sull'orlo dell'abisso. I chimici Khattar e Anaïs hanno perso il lavoro. Insieme, tentano un esperimento unico: sopravvivere nutrendosi di carne umana. 

Un giorno Anaïs scompare e Khattar si trova coinvolto in un oscuro progetto di traffico di armi ad alta tecnologia".

 

Adeguandosi alle regole non scritte del migliore e del peggiore Cinema autorialista-highbrow-sperimentale consolidatosi (!), Karabache lavora per condensazioni e asportazioni estreme, sfiorando un'ermeticità quasi affine - se non fosse per i presupposti (meta)linguistici - alla videoarte.

 

In effetti, ciò che di più interessante emerge qua e là può essere tenuto insieme in due sensi, non mutualmente esclusivi. Come afferma già la locandina del film, la ricerca architettonico-scenografica è uno dei perni discorsivi di Zaman Dark: le location sono decisamente impattanti e si muovono ambiguamente nel campo della distopia, anche vista la connotazione del contesto diegetico. 

 

Basta citare Agente Lemmy Caution: missione Alphaville di Jean-Luc Godard per comprendere le potenzialità estetiche e politiche della risignificazione di edifici preesistenti: la strada è stata abbondantemente battuta dalla fantascienza intimista dei decenni successivi, ma quasi sempre venendo mutilata, vanificando le (possibili) differenze di statuto interne al profilmico. 

Il primo dei due sensi è allora questo intreccio orientato, nella fiction, alle zone più feconde del Cinema del reale, soprattutto se in connessione con la direzione esplicitamente politica rivendicata dal film. 

Il secondo riguarda appunto, declinando così il politico, le potenzialità simbolico-concettuali del rapporto spaziale (nel suo trattamento filmico) tra edifici e personaggi.

 

La relazione individuo/mondo è in effetti tematizzata, almeno in principio: l'ambiente vitale è ormai ostile, si è reso ostile in risposta alla barbarie antropocentrica oppure è stato (inconsapevolmente?) reso ostile, estraneo, da un umano sradicato, postumano o transumano a seconda delle letture (sul tema si è espresso da poco David Cronenberg - non senza referenti illustri, Stelarc su tutti - in Crimes of the Future).

 

Il cibo è marcio e, nell'impazzare-impazzire distruttivo del tardocapitalismo, due chimici - possibile espressione di quel progressivo dominio della tecnica che proprio nel capitalismo ha trovato un alleato (o una coincidenza) - si danno al cannibalismo e agli stupefacenti, peraltro ricavati dal corpo delle loro vittime.

 

In merito al cannibalismo la metafora è tanto consunta da risultare ormai innocua, se non paradossalmente invisibile; Zaman Dark non aggiunge né scarta il dato iconografico più banale, ad esclusione del momento in cui Khattar vende il suo lavoro, la carne che si procaccia, a una borghesia che strumentalmente non può che occultare il sangue, non può che propagandare che ormai "tutto si fa con un bottone" (in proposito si vedano Blackhat di Michael Mann e il recente The Killer di David Fincher).

 

In merito all'impiego degli stupefacenti la riflessione è più promettente: in un orizzonte in cui le spire del Leviatano capitalista (marittimo, nel senso del politologo Carl Schmitt) fanno sì che "la fuga non funziona nemmeno nei sogni", l'escapismo allucinato trova un barlume di profondità concettuale quando nel trip irrompono gli spettri di un assedio poliziesco (eventuale colpo di coda di quella borghesia apparentemente emofobica) o bellico (riemersione del passato libanese).

 

In questa direzione la dialettica interno/esterno continuamente evidenziata dal Karabache montatore trova un potenziale approdo proprio nell'abolizione della distinzione medesima: peccato che, come nel caso del montaggio alternato in cui vittima e aggressore - in un mondo (diegetico e filmico) fin da subito connotato in chiave distopica - si confondono, il Karabache regista e co-sceneggiatore non abbia il coraggio e/o la lucidità di appropriarsi radicalmente di queste suggestioni.

 

 

[Un frame da Zaman Dark]

 

 

Tutte le altre indicazioni risultano invece scarsamente comprensibili: la carne al fuoco vorrebbe essere parecchia, ma l'ellitticità insostenibile e l'eccessivo calligrafismo rivelano invero, nella mancanza di coesione, come Zaman Dark sia, al più, inutilmente un lungometraggio.

 

Non si tratta di rendere protagonista l'incoerenza o l'onirismo, né - dal punto di vista estetico - di aspettare Godot, né di aspettare Godot senza Godot: queste sarebbero sovrainterpretazioni tanto raffinate quanto ingenue, cieche nei confronti sia dei numerosi indizi contrari presenti nel film sia della sacca discorsiva (paratestuale) che lo accompagna, che ne condiziona la visione.

 

Il paradosso, peraltro, è che il film si affida inequivocabilmente alle immagini: le parole pronunciate sono pochissime, per di più attraverso stratagemmi abbastanza furbi (come furbe sono le provocazioni poco giustificate, specie sul fronte sessuale), eppure la discorsività strettamente formale, astraendo, non tiene. 

Gli interventi musicali rendono lampante, ad esempio, come tra ambizione e suoi frutti la spaccatura sia incolmabile.

 

Per certi versi, Zaman Dark è a mio avviso un esempio da manuale di come lo sperimentalismo, che per sua natura si espone scopertamente alla fallibilità, non possa (auto)assolvere da qualsiasi fallimento in nome, appunto, di quell'oscurità che avvolge i sentieri sperduti.          

 

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