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El Conde - Recensione: per favore mordimi sul collo - Venezia 2023

L'ultimo divertissement di Pablo Larraín non è forse un passo avanti nella sua filmografia, ma è senza dubbio un piccolo gioiello visivo e satirico capace di unire stratificazione e risate

Spesso quando si parla del Cinema di Pablo Larraín - uno dei più importanti registi sudamericani contemporanei, vero e proprio traino al movimento cileno e di tutta la nuova generazione di autori dell'America Latina - si tende a citare il trittico di film biografici che ha inanellato negli ultimi anni: Spencer, Jackie e Neruda. 

 

Quando sono trapelate le prime informazioni su El Conde, sua ultima fatica presentata in concorso in questa 80ª Mostra del Cinema di Venezia, era chiaro che il contesto fosse tutt’altro. 

 

 

[Il trailer di El Conde, dal 15 settembre disponibile su Netflix]

 

 

Il dittatore cileno Augusto Pinochet in forma di vampiro, che si muove nei giorni nostri in cerca di sangue e cuori da frullare: questa in breve la traccia del film di Larraín. 

 

Jackie e Spencer raccontavano in toni che tendevano quasi all’horror la vita reale di due principesse, tra l’asfissiante pressione della famiglia reale e l’inconciliabilità di pubblico e privato - finanche nel dramma più doloroso - ma già le prime voci su El Conde rendevano chiaro che il registro non sarebbe stato né quello di questi atipici film biografici, né quello reggaeton di Ema, né quello pubblicistico e filologico di No - I giorni dell’arcobaleno e Post Mortem.

 

Il legame con l’eternità dopo la morte è sempre stato un tema estremamente caro all’autore cileno, sin dall’autopsia del presidente Salvador Allende in Post Mortem, e la scelta in El Conde di riportare in vita il tiranno per renderlo un essere immortale della notte è senza dubbio un’operazione che vira su toni ben più grotteschi e satirici, confermando ogni previsione. 

 

El Conde è infatti il racconto della vecchiaia antistorica e irreale del Conte Pinoche, nobile francese che dopo essere fuggito dalle epurazioni durante la Rivoluzione Francese e aver attraversato la Seconda Guerra Mondiale si ritrova catapultato in Cile; sotto il falso nome di Augusto Pinochet prende il potere per fermare i comunisti - i rojos, quelli dello stesso colore del sangue che beve.

 

Dopo anni di dittatura finge la sua morte e si ritira a vita privata con la moglie e il fido maggiordomo sovietico.

 

 

[El Conde in uno dei suoi volteggi nel cielo]

 

Dopo un lungo - forse troppo - voice over rivelatore sulla Storia vista dal punto di vista del Conte vampiro, il film di Larraín si colloca nella stanca e demotivata vecchiaia di un Pinochet sul punto di lasciarsi morire di fame, che non va più a caccia di sangue e cuori: la noia è la classica categoria con cui si guarda ai vampiri ed El Conde non fa eccezione.

 

L’ex-dittatore (interpretato da Jaime Vadell) raduna così i figli per dividere i suoi averi tra loro e la moglie Lucia (Catalina Guerra), ma un elemento di rottura, già preannunciato da una non a caso inglese voce narrante (ma qui evito di spoilerare una delle intuizioni più riuscite del film) sta per entrare nelle vite della famiglia del vampiro: un'apparentemente purissima suora di nome Carmen, interpretata da una fantastica Paula Luchsinger, viene chiamata per conteggiare tutto il suo patrimonio e sinuosamente cerca di ingannare El Conde.

 

El Conde, che a un primo sguardo sembra essere solo un divertissement dell'autore cileno che imbastisce una satira politica e grottesca sul vampirismo sociale, in realtà è un film profondamente stratificato in cui si muovono come tanti volteggi in aria, al pari delle evoluzioni di Pinochet e degli altri vampiri nel cielo, una miriade di suggestioni, spunti e sottotesti diversi, molto spesso solamente accennati.

 

Il film passa infatti da una rilettura storica della dittatura cilena e di quegli anni a una fenomenologia della bramosia, dalla consueta smitizzazione della dimensione familiare fatta di tradimenti e coltelli affilati - sempre presente nel Cinema di Larraín - a una rappresentazione sociale e cinefila di una classe dominante ingorda di sangue e cuori, anche quando dovrebbe essere morta e dimenticata.

 

Tanti spunti che a mio avviso non sempre riescono a mostrare organicità e profondità di analisi, ma che forse si collocano in una dimensione più superficiale e accennata proprio per la volontà di rispettare il tono satirico dell’opera: sarebbe risultato dissonante perdersi nell’analisi del ricordo di una dittatura - e nell’assenza di vero superamento - senza un momento di lutto in un film che vuole giocare così tanto con l’ironia grottesca, così il regista lo accenna lasciando allo spettatore ricamare su ciò che si trova davanti ai suoi occhi.

 

L’intuizione di Larraín da cui parte El Conde si mischia inoltre con una cinefilia profonda e, questa sì, ben approfondita: il dialogo tra i riferimenti visivi e tematici a La passione di Giovanna D’Arco di Carl Theodore Dreyer, che confluiscono nel personaggio di Carmen (perfetta in questa riedizione lussuriosa e infida del personaggio interpretato da Renée Falconetti), e quelli al Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau sono tutto meno che vuote citazioni chiamate dalla narrazione, ma mettono in scena un dialogo tra il racconto della tirannia del film espressionista e la totalizzante disquisizione sulla fede dell’autore danese, che qui si è diretta verso l'avarizia del dittatore in pensione.

 

 

[Fyodor, impersonato da Alfredo Castro, fido maggiordomo del Conte e fido interprete di Pablo Larraín in El Conde]

 

 

Il sovrano assoluto che ispira emulazione soprattutto nei suoi istinti più deprecabili è davvero il motore di questa interazione, o forse è solo espressione della volontà intrinseca di coloro che lo hanno elevato sopra agli altri.

 

Tutti vogliono la sua maledizione, tutti vogliono la sua necessità di sangue, tutti vogliono essere morsi da lui.

L'avidità del Conte, morto ricco e ladro nei confronti del suo stesso popolo, è il faro che tutti i personaggi abietti e striscianti di El Conde inseguono e mirano a imitare, vogliono prendere parte alla sua stessa avidità; il parallelo con la brama di sangue e i cuori frullati è chiaro. 

 

L’assenza di colore è poi estremamente significativa, laddove un dittatore nato per sconfiggere i rojos beve sangue e conquista cuori pulsanti, ma noi li vediamo neri e densi come la pece: l’assenza di colore e per estensione di politica, ma di mero convincimento e ricerca di come sfruttare la credulità e la fiducia sono fili sempre tesi all’interno di El Conde, dove gli intrighi di corte, i rapporti traditi e i sotterfugi diventano centrali nella seconda parte del film.

 

C’è poi un ultimo grande leitmotiv che attraversa il castello tematico e visivo tipico del Cinema di Larraín, ovvero la profonda ammirazione per i suoi personaggi femminili e per le loro dualità, veri e propri motori della sua poetica: da un lato mosse da sentimenti brucianti e in continuo mutamento, come già era in Ema, dall’altro forti e pronte a impalare il proprio faro tradendo ogni patto o fiducia.

 

El Conde è un film stratificato e denso di spunti e suggestioni, anche se non sempre organiche e capaci di dialogare, che incastonate in un’estetica magnificamente decadente e che fa del suo essere derivativa, ma modernizzata e rielaborata la sua grande forza, sembra trasparire una voglia di essere più leggero e di minor pretesa dell’autore cileno, ma che sicuramente non delude. 

 

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