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Sound of Metal: rinascita scura come una Porter piccante

Il film pluricandidato agli Oscar 2021 è un perfetto esempio di dramma indipendente con una punta di unicità

Sound of Metal è un film presentato al Toronto International Film Festival del 2019 e candidato a 6 Premi Oscar 2021 (tra cui Miglior Film, Migliore Attore Protagonista e Miglior Sceneggiatura Originale): la regia è di Darius Marder, già sceneggiatore di Come un tuono di Derek Cianfrance che qui è autore del soggetto; l'opera nasce proprio dall'incontro tra i due registi americani.

 

Leggendo la sinossi c'è il rischio di pensare che il film, distribuito da Amazon Prime Video, possa essere il classico film da Award Season con una grande interpretazione ed estremamente focalizzato nel raccontare nella maniera più tragica possibile due piaghe sociali come la disabilità e la riabilitazione, ma non è così. 

 

Non a caso infatti Sound of Metal sta riscontrando moltissimi apprezzamenti critici e riconoscimenti e lo troviamo in molte delle classifiche di fine anno del 2020 di CineFacts.it.

 

[il trailer di Sound of Metal]

 

  

Sound of Metal è un film estremamente intimo che si pone nel percorso aperto da Derek Cianfrance stesso e da tanto Cinema indipendente americano capace di ragionare sul mezzo cinematografico a tutto tondo: dalla pellicola all’uso dell’audio, dal lavoro di interscambio e improvvisazione con gli attori all’uso di esponenti di rilievo della comunità non udente degli Stati Uniti.

 

Tutto sapendo dosare al meglio emozioni e naturalezza confezionando un film estremamente coinvolgente.

 

"Credo che sia letteralmente la cosa migliore che qualcuno possa dire di Sound of Metal: mi ha fatto provare molto."

Darius Marder su un complimento ricevuto per Sound of Metal in un'intervista.

 

 

[Riz Ahmed nei panni di Ruben in Sound of Metal, dopo sei mesi di studio della batteria]

 

 

Sinossi

Guardiamo l'etichetta: un breve riassunto del film.

 

Sound of Metal racconta la caduta e il tentativo di rialzarsi del batterista Ruben (Riz Ahmed) che, divenuto sordo durante un concerto, è obbligato ad affrontare un percorso di riabilitazione e ridefinizione di sé passando attraverso una comunità di recupero per persone con il suo stesso handicap.

 

Il giovane musicista era in tour con Lou (Olivia Cooke), fidanzata e altra metà della band Blackgammon, quando nel giro di due concerti perde completamente l’udito.

 

La vita dei due è la perfetta rappresentazione dell'universo dei musicisti emergenti: vivono in un camper immersi nei loro strumenti e condividendo tutto il poco che hanno, sono estremamente legati e girano l'America suonando in pub e piccoli locali underground aspettando la definitiva consacrazione.

 

 

[Olivia Cooke, Paul Raci e Riz Ahmed in Sound of Metal, all'arrivo dei due musicisti nella comunità di Joe]

 

 

Ruben è pulito dall'eroina da quattro anni, ma lo stravolgimento è troppo grande e il rischio di ricadere nel baratro troppo vicino, così la fidanzata chiama subito il suo sponsor e poi, su consiglio di quest'ultimo, lo obbliga a interrompere la tournée per recarsi nella comunità rurale gestita da Joe (Paul Raci).

 

Joe è un ex-alcolista che ha perso l'udito a causa delle esplosioni in Vietnam e la sua comunità si basa sulla convinzione che la sordità possa diventare un’occasione per riscoprire se stessi e abituarsi a nuovi ritmi dettati dal silenzio; il batterista non è convinto perché da un lato vuole restare accanto alla fidanzata, che non potrebbe stare lì con lui, mentre dall'altro sogna degli impianti cocleari per ritornare alla sua vita precedente.

 

Lou lo convince a rimanere, lasciandolo lì.

 

Ruben è quindi obbligato a ricominciare da zero la propria vita: viene affiancato a una classe di bambini per imparare il linguaggio americano dei segni (ASL) mentre continua gli incontri di sostegno e in cambio insegna ai giovani studenti a suonare la batteria.

 

 

[Olivia Cooke in Sound of Metal è Lou]

 

 

Paul lo prende sotto la propria ala, cercando in ogni modo di abituarlo alla nuova convivenza con il silenzio e dopo mesi di permanenza gli propone di restare come dipendente della comunità: fino a quel momento infatti il soggiorno era stato finanziato da una chiesa e in questo modo Ruben sarebbe potuto diventare indipendente.

 

Nonostante i miglioramenti e gli insegnamenti del veterano nella testa del batterista c'è solo la volontà di tornare alla sua vita precedente e, venduta tutta l'attrezzatura e il camper in cui viveva con Lou, prenota l'operazione per gli impianti senza dir nulla a Joe, già sapendo che sarebbe stato contrario.

Quest'ultimo, messo davanti al fatto compiuto e alla richiesta di un prestito, gli augura il meglio ma non può dargli alcun aiuto, essendo questa sua scelta completamente in controtendenza con lo spirito della comunità: lo invita così ad andarsene.

 

Gli impianti permettono a Ruben di sentire e di conseguenza raggiunge Lou in Belgio, ma nulla è come prima: né il suono metallico che viene inviato al suo cervello - bellissimo il legame con il titolo Sound of Metal che per fortuna non è stato tradotto - così differente da quello che sentiva prima, né il rapporto con la compagna, che ormai tornata sotto l'egida del ricco padre (Mathieu Amalric) ha continuato la propria vita senza di lui.

 

Dopo una notte passata insieme Ruben capisce che pur essendosi salvati a vicenda, la distanza tra loro è divenuta enorme: la lascia prima che si svegli e una volta sedutosi su una panchina all'aria aperta spegne gli impianti.

 

 

[Ruben subito dopo l'intervento]

 

 

Breve Commento

Stappiamo e versiamo: un'analisi del film, indipendentemente dalla birra, ma che ci porti nel mood del film.

 

Fermandosi alla sinossi Sound of Metal sembra uno di quei film che giocano con il patetismo e l’eccesso tragico e che fanno proprio quel modo di usare il dramma infarcendolo di retorica sui grandi problemi sociali, ma l’opera prima di finzione di Marder, che aveva diretto solo un documentario, è un film che si innesta in un solco estremamente differente e in quest’ottica è molto interessante andarne a scoprire prima di tutte le considerazioni la sua genesi.

 

Metalhead era un progetto di Derek Cianfrance nato nel 2007, prima del grande exploit arrivato con Blue Valentine.

 

Il regista originario del Colorado,  che aveva esordito nel 1998 con Brother Tied e che si stava dedicando al mondo del documentario, aveva suonato da ragazzo la batteria ed era stato obbligato ad abbandonare la sua passione a causa di un acufene. 

 

 

[Darius Marder e Derek Cianfrance]

 

 

In quegli anni stava portando avanti la scrittura di Blue Valentine, quella di Come un tuono e aveva iniziato a ragionare sulla realizzazione di un docufilm con come protagonisti i Jucifer su un soggetto simile a quello di Sound of Metal.

 

Unendo così sia una componente reale legata alla band sludge metal, sia una componente di finzione ricavata dal suo background. 

Molto del film era già stato girato, tanto che sin dal 2009 si parla di post-produzione per Metalhead, ma prima arrivò la grande occasione di mettere in scena Blue Valentine (“dopo aver provato a farlo per 12 anni”) e poi il grande successo ricevuto da quest’ultimo lo portò a lavorare su Come un tuono, accantonando sempre di più il progenitore di Sound of Metal.

 

Cianfrance ha sempre avuto una tendenza a girare moltissimo, cercando di catturare quanto più possibile della naturalezza che costruisce con gli attori, ritrovandosi così spesso in lunghi processi di post-produzione dovendo montare e selezionare tra moltissime ore di materiale: come dimostrano le ore di girato de La luce tra gli oceani e le riprese estremamente diluite di Blue Valentine.

 

 

[Riz Ahmed e Darius Marder al lavoro su Sound of Metal]

 

 

Nel 2008, quindi nel pieno delle riprese di Metalhead, conobbe Darius Marder a una festa per bambini, gli mostrò la sceneggiatura di Come un tuono e alcune riprese di quel film su un batterista divenuto sordo che stava girando.

 

Le note che gli vennero mandate in risposta allo script lo convinsero talmente tanto che quando qualche anno dopo, quando ebbe la possibilità di girarlo, lo chiamò senza pensarci per chiedergli di

co-sceneggiarlo insieme a lui. 

Da questo sodalizio nacque una grandissima stima reciproca e quando Cianfrance capì che era il momento di abbandonare il suo bambino fu naturale affidarlo a Marder: da lì nacque Sound of Metal.

 

“Mi sento come se non potessi tornare indietro a fare di nuovo metal, perché ho già imparato da quello la lezione di cui avevo bisogno, e sento che Edgar e Amber [i Jucifer ndr] dovrebbero essere sostuiti da attori professionisti, ma non me la sento di tradirli. 

Immaginando come Darius potrebbe prenderlo e trasformarlo in altro, gli ho detto "Perché non lo fai tu?"."

Derek Cianfrance sulla nascita di Sound of Metal.

 

Tutto questo excursus sulla genesi del primo film di finzione di Marder ci è utile a comprendere molte delle scelte caratteristiche di quest’opera, che sono in diretto collegamento con lo stile dell'autore di Blue Valentine e in particolare con il suo modo di lavorare con gli attori.

 

 

[Darius Marder in Sound of Metal ha scelto di restare estremamente vicino ai volti dei suoi attori, per catturarne ogni minima espressione]

 

 

Che Cianfrance sia solito lasciare molto spazio ai suoi interpreti e che cerchi di costruire uno spazio in cui farli interagire e creare, in piena linea con il cinema indipendente post-mumblecore è già stato raccontato perfettamente nella recensione che trovate sul sito del film con protagonisti Michelle Williams e Ryan Gosling, e questa è stata la strategia di Marder in Sound of Metal.

 

Basti pensare che due momenti estremamente significativi, come la canzone iniziale o le lezioni di batteria date da Ruben ai giovani studenti sordi, sono state entrambe state partorite direttamente da Olivia Cooke e Riz Ahmed.

 

"Questo è parte dell'aspetto immersivo di Sound of Metal, che ci ha messi alla prova in maniera molto particolare in questo film: il problema era che non possiamo lasciarlo, siamo con lui e non solo stiamo con lui, stiamo con lui negli anni.

Siamo su un piano estremamente sensoriale e viscerale di empatia con Ruben.

Un linguaggio molto particolare."

Darius Marder parlando del focus di Sound of Metal

 

Se però nel Cinema a cui Cianfrance e Marder danno seguito la naturalezza e la partecipazione degli attori (spesso anche non professionisti) era data dal mettere in scena situazioni vicinissime agli interpreti, in Sound of Metal la sceneggiatura, che è giustamente candidata all'Oscar, è ben più lontana dal vissuto dei due e di conseguenza è stato necessario un lavoro di immedesimazione ancor più invasivo.

 

Riz Ahmed, per esempio, oltre a studiare batteria per sei mesi ha scelto di comune accordo con l’autore di indossare degli impedimenti uditivi che riproducessero del rumore bianco in gran parte del primo atto.

 

 

[Ruben e Lou nel loro camper]

 

 

Dopo questo primo trauma, pur non portandoli più, ha comunque continuato a usare la lingua dei segni con tutti i membri della troupe durante la lavorazione.

 

"Non riuscivo a sentire nulla, nemmeno il suono della mia voce!"

Riz Ahmed in un’intervista su Sound of Metal.

 

Allo stesso modo, in un film inevitabilmente girato in ordine cronologico, Olivia Cooke è stata tenuta lontana dal suo partner recitativo e dal set per tutte le riprese del secondo atto e, a detta della stessa attrice, la mancanza di alchimia tra il suo personaggio e Ruben era palpabile quando nel film i due personaggi si rivedono.  

 

Un discorso diverso va invece fatto per tutto l’universo della comunità non udente americana, ben più vicino a quel mondo di attori che interpretano personaggi simili a se stessi che ha caratterizzato molto Cinema dei primi anni 2000.

 

In questo senso la scelta di Paul Raci e di gran parte del cast secondario, preso tra attori non professionisti della comunità, è emblematica: la candidatura a Migliore Attore non Protagonista per il settantatreenne è un grandissimo – e meritatissimo – traguardo.

 

 

[Riz Ahmed e Paul Raci, l'uno con i tatuaggi di scena, l'altro con quelli veri]

 

 

Figlio di genitori sordi, pur non essendolo, è da sempre un esponente delle campagne di sensibilizzazione sull’argomento e suona negli Hands of Doom: una band che si esibisce in ASL.

 

Come il suo personaggio ha inoltre preso parte in gioventù alla guerra in Vietnam.

 

Tutto questo lavoro a stretto contatto con la comunità sorda e di immedesimazione degli attori si riflette in quello che è uno degli aspetti più interessanti e funzionanti di Sound of Metal, ovvero la sua naturalezza e la sua capacità di creare empatia.

Il film infatti resta spesso molto vicino alle reazioni e alle espressioni dei propri interpreti, cercando di catturarne il più possibile la realtà delle sensazioni per trascinare lo spettatore sul loro stesso piano.

 

Primissimi piani, macchina a mano, lunghi dialoghi in lingua dei segni fatti di attese, silenzi ed espressioni sono solo uno strumento per catturare un contesto recitativo così immersivo e che porta inevitabilmente lo spettatore nel mondo di Ruben e del suo nuovo modo di stare al mondo.

 

Allo stesso modo funzionano i rapporti tra personaggi in cui traspaiono perfettamente tutti gli espedienti messi in campo da Marder: la voglia di persone abituate a parlare in ASL di aiutare Riz Ahmed in difficoltà in una nuova lingua, la distanza tra i due innamorati, l'importanza che il tema riveste per Paul Raci e molti altri esempi. 

 

 

[Ruben in una delle prime lezioni di batteria ai giovani studenti non udenti]

 

 

Il silenzio, grande protagonista del film, è inoltre lo spazio in cui vengono portati avanti alcuni dei discorsi cinematograficamente più interessanti di Sound of Metal: quello sulla dipendenza e quello sull’accettazione di sé.

 

Il film infatti non parla solo di riabilitazione da droghe e alcol, ma racconta in maniera ben più ampia l’incapacità di staccarsi da qualcuno o qualcosa e dall’idea che si è costruita intorno.

In quest’ottica mette in chiaro sin da subito nel rapporto tra Lou e Ruben la necessità che entrambi hanno dell’altro ed è emblematico che questo processo di separazione si espleti nei tre atti includendo temporalmente sia quello sulle droghe, sia quello sull’accettazione dell’handicap.

 

Entrambi i musicisti non sono solo legati artisticamente e romanticamente, ma sin dai tagli mostrati dopo pochi minuti sul braccio della ragazza capiamo che hanno bisogno l’uno dell’altra nel senso più viscerale del termine.

 

 

[Il diverso respiro visivo di Sound of Metal nella comunità di Joe è lampante]

 

 

Il film però cerca proprio di raccontare questo: nell'ottica di Sound of Metal non può essere il bisogno a spingere le nostre azioni, bensì una presa di coscienza di sé e un’analisi delle cause dei propri comportamenti a muovere la propria esistenza.

 

Per portare avanti questo discorso il film ci mostra gli alti e i bassi di un rapporto su queste basi, la sua incostanza e come alla fine tutta questa caoticità sia parte della dipendenza stessa in un circolo vizioso difficile da spezzare.

 

La forza con cui viene messo in scena il litigio tra i due è palpabile, Marder riesce a farci sentire la tensione, la rabbia, l'incomunicabilità e lo spaesamento con il solo cambiamento del movimento della camera, sfruttando perfettamente la vicinanza agli attori e le distanze tra i due.

 

 

[Spazi, profondità di campo, colori: tutto è gestito in modo diverso tra il primo e il secondo atto di Sound of Metal]

 

 

Per far questo, come spesso accade in Sound of Metal, prima di metterlo in parole o segni lo mostra attraverso la messa in scena: la frenesia dei movimenti durante le discussioni o il caos scenografico nelle inquadrature di descrizione degli ambienti sono emblematici nel donare una connotazione ai rapporti e i luoghi di cui parlano ben prima di quando questo verrà messo in luce dal dialogo o dagli eventi.

 

Dopo aver mostrato le cose la sceneggiatura di Marder può anche permettersi di dirle senza scadere nel didascalico, forte sia di una rappresentazione visiva che ha già detto tutto, di interpretazioni che non scadono nel patetismo e di un dialogo che per forza di cose risulta più rarefatto.

 

Il dialogo in cui Joe mette Ruben di fronte al dilemma di dover accettare il silenzio e di non doverlo riempire a tutti i costi con altre dipendenze, come quella dal lavoro o dall’azione, aggiunge un tassello ribadendo ciò che il film aveva già mostrato: tutto può essere dipendenza se non facciamo prima i conti con noi stessi.

Lo fa attraverso un espediente narrativo estremamente significativo.

 

Obbliga il giovane a chiudersi in una stanza, seduto su una sedia, potendo soltanto scrivere: il perfetto surclassamento dell’azione da parte della parola.

 

 

[Darius Marder gioca con gli spazi e con i diversi colori della pellicola rispetto alle scelte claustrofobiche del primo atto di Sound of Metal]

 

 

L’autore è bravissimo in questo modo a forzare all’interno di Sound of Metal un ordine gerarchico: prima l’immagine, poi la parola, come a voler svuotare di importanza l’uno o l’altro linguaggio e di conseguenza sottolineare la necessità di venire a patti con il concetto prima che questo venga espresso.

 

Un modo estremamente intelligente di sfruttare un film in cui spesso la parola è sostituita da gesti per ragioni narrative, portando inoltre avanti un discorso sulla dicotomia tra pensiero e azione che ci riporta a tutto il Cinema a cui Marder innegabilmente si allaccia.

 

Il film però non vuole chiudere il moto interno e la conciliazione con se stessi in un discorso ombelicale e solipsistico, ma mette al centro il dialogo e di conseguenza lo scambio quasi maieutico tra intelligenze diverse.

Non suggerisce quindi che siamo soli nelle nostre battaglie, ma anzi che solo attraverso la condivisione e la discussione (prima con noi stessi, poi con gli altri) possiamo sconfiggere i nostri mostri.

In questo il collegamento con uno dei pilastri della lotta alle dipendenze, centralissima nell’immaginario USA, è innegabile: le riunioni degli alcolisti anonimi, gli sponsor, il dialogo e il racconto delle proprie esperienze per renderle reali.

 

In tutto questo i suoni delle parole sono solo un mezzo e l’importante è la comunicazione e la messa in discussione.

 

 

[Gli spazi nel camper di Lou e Ruben]

 

 

Tutto questo discorso sull’autoanalisi e sulla presa di coscienza di sé serve a portare avanti un altro dei grandi temi di Sound of Metal: il distacco dall’immagine che si ha di se stessi.

 

Il trauma che Ruben vive lo obbliga a dubitare di tutto ciò che credeva sulla sua vita, sulle sue ambizioni e sui suoi rapporti e lo pone di fronte a interrogativi che non coinvolgono solo il cambio fisico che sta vivendo, ma anche tutto ciò di cui era convinto nella sua stabilità precedente. 

Proprio la tensione tra l’immagine che Ruben aveva di sé e la nuova vita che si trova davanti è il punto centrale dell’ultimo atto di Sound of Metal.

 

Non riuscire a immaginarsi al di fuori dei Blackgammon, senza Lou e senza udito lo spingono nel sacrificio di tutto ciò che aveva costruito nel tempo (il camper, la batteria, la posizione all’interno della comunità): gli impianti come la chiave per ritornare all’immagine di sé che ha nella sua testa.

 

 

[Di nuovo Riz Ahmed e Darius Marder sul set di Sound of Metal]

 

 

Risulta estremamente significativo il modo in cui gli impianti, pur funzionando, non rispettino le sue aspettative e il sogno sbatta sulla realtà che ormai è andata avanti senza tener conto delle sue aspirazioni.

 

Ricorda molto il topos narrativo del giocatore d’azzardo “avessi i soldi per un’ultima partita/puntata sarei in grado di recuperare tutta la mia vita” che tanto ha segnato il Cinema degli ultimi anni - sempre legato allo stesso universo cinematografico indipendente di Cianfrance e Marder. 

Due esempi su tutti: Diamanti grezzi dei fratelli Safdie e Tutto o niente di Joe Swanberg.

 

Come in Cianfrance il lavoro che viene portato avanti in scrittura è ben più solido e articolato di altri esempi di questo universo indipendente che magari sacrificano l’aspetto puramente narrativo sull’altare della naturalezza o dell’approfondimento dei moti interiori di uno o più personaggi, pur mantenendone la dualità e l’importanza di entrambi gli aspetti - che da anni caratterizza molto dramma indipendente statunitense.

 

 

[Riz Ahmed durante le lezioni improvvisate di batteria}

 

 

In questo si riversa moltissimo della vita di Marder, cresciuto in una comunità buddista con lunghi weekend di silenzio e lavoro, che sottolinea l’importanza del momento in cui ci si siede e ci si estrania da tutto il resto (aspetto che si ricollega perfettamente con la terapia imposta da Joe a Ruben e con l’ultima scena del film).

 

Il lavoro che poi viene fatto sul mezzo e sul linguaggio cinematografico è mirabile e portatore di altre sfaccettature del discorso di Marder all’interno di Sound of Metal.

Dall'uso della pellicola (caratteristica anche di una delle due metà di Blue Valentine e di altri lavori di Cianfrance) al lavoro di mixing e sound design.

 

La prima è particolarmente interessante in Sound of Metal perché viene sfruttata sia per accentuare il “degrado” e la sporcizia della vita precedente di Ruben sia per catturare la tranquillità e lo “spazio del silenzio” della comunità di recupero, attraverso la differente cromia che la pellicola si porta dietro rispetto al digitale.

 

"Perché io mi sono battuto per questo film e nessuno mi potrà dire di no. […]

Amo girare in pellicola, quando giri in pellicola devi conoscere le regole, sapere cosa stai cercando e sperare di raggiungerlo perché sai che non potrai continuare a girare all'infinito finché non lo raggiungi e questo è un insegnamento etico. 

Credo sia meglio non girare un film se speri di trovarlo sul set. 

[...] C'è anche un altro aspetto interessante. Qualcosa a cui tengo e in cui credo particolarmente: fuck video village!" 

Darius Marder sulla scelta di girare in pellicola Sound of Metal.

 

Oltre alla pellicola il lavoro sul suono è un altro degli aspetti fondamentali di Sound of Metal, soprattutto per quella che è stata la post-produzione curata da Jaime Baksht, Michelle Couttolenc e Carlos Cortés agli Splendor Omnia Studios (gli studi del regista messicano Carlos Reygadas pluripremiato al Festival di Cannes).

 

Il tentativo di replicare la nuova percezione di Ruben è incredibilmente reso dal sound design, che è passato attraverso un vero e proprio storyboard sonoro, come raccontato da Marder stesso.

 

 

[Darius Marder sul set di Sound of Metal, e non al video village]

 

 

In particolare risulta interessantissimo tutto il lavoro di costruzione e resa dei suoni, attraverso tipologie diverse di microfoni, per raccontare la memoria uditiva di Ruben e la sua ricerca di associare i suoni nella sua testa al mondo circostante che non può più sentire.

 

Il regista di Sound of Metal decide inoltre di costruire una vera e propria soggettiva audio per portarci ancora più vicini alla percezione del protagonista.

In questo senso è interessantissimo come venga sfruttata sin da una delle prime inquadrature in cui non vediamo ciò che Ruben sta osservando fuori dalla finestra, ma sentiamo ciò che sta ascoltando: questo chiude perfettamente il cerchio con ciò che poi avviene nell'ultima inquadratura del film in cui vediamo ciò che sta vedendo lui, ma senza sentire nulla.

 

Due dei tanti aspetti che compongono un comparto audio incredibile, che ha saputo giocare con differenti microfoni per differenti rese, costruire suoni per traslare la percezione di Ruben e che alla fine dei conti risulta un aspetto per nulla subordinato a quello visivo in un film che parlando di sordità poteva rischiare l’opposto.

 

Sound of Metal è quindi un film denso di concetti in cui la ricerca tecnica e l’esaltazione del mezzo cinematografico trovano molto spazio senza però oscurare in alcun modo un film che fa della naturalezza e del coinvolgimento emotivo la sua più grande arma, anzi riuscendo a esaltarli ancor di più. 

 

 

[Il computer traduttore e i due attori nella scena sulla birra]

 

 

La Birra

Annusiamo e assaggiamo: una scena in cui la birra è protagonista.

 

Sound of Metal non è un film in cui si parla esageratamente di birra o che abbia grandi scene in cui una pinta o una bottiglia diventano protagoniste, ma - riallacciandoci al discorso precedente sulla memoria uditiva - il nostro argomento di interesse si palesa nel ricordo di Joe, durante il primo incontro tra lui e Ruben.

 

Il veterano del Vietnam sta parlando mentre un computer traduce le sue parole per il batterista che ancora non ha modi di comunicare con il resto del mondo.

 

Acquista molta importanza lo sfasamento temporale che si viene a creare tra i due interlocutori, obbligati ad aspettare che un computer traduca le parole di Joe.

 

 

[Poco prima di far allontanare Lou durante questo importante incontro tra Joe e Ruben]

 

 

Il personaggio interpretato da Paul Raci inizia dunque a raccontare il suo passato al giovane batterista da poco divenuto sordo: la guerra in Vietnam, la sordità e l'allontanamento della sua famiglia.

 

In tutto questo definisce chiaramente quale sia stato il suo demone.

 

“Non perché fossi sordo, bada bene, è stata la birra.”

Joe in questa scena di Sound of Metal

 

Questo ci dà la possibilità di parlare di un altro grande universo collegato al mondo della birra nell’immaginario cinematografico, in particolare statunitense, dopo averla vista declinata in vari modi nei primi sette episodi di questa rubrica: l’alcolismo.

 

Questo è un momento fondamentale all’interno del film perché è la prima vera connessione tra Joe e Ruben, ovvero tra il mentore e l’eroe del viaggio raccontatoci da Darius Marder in Sound of Metal.

 

Lo rende ancora più forte la semplicità delle parole con cui l’uomo descrive quello che è stato il grande dramma della sua vita racchiudendo tutto il suo percorso di riabilitazione in una semplice constatazione: nessuna scusa, nessuna giustificazione.

 

 

[La difficoltà di Riz Ahmed nel comunicare durante una delle riunioni tra i membri della comunità]

 

 

Tutto il lungo viaggio che Ruben si troverà ad affrontare, errori ed epifanie nel corso del tempo si riduce alla semplice consapevolezza che si fosse in preda a un demone e che lo si è sconfitto, ma che bisognerà conviverci per sempre.

 

Basta nominare l’alcol in Sound of Metal in un unico momento per riportare alla mente tutto quella mitologia di alcolisti anonimi, battaglie senza fine, gettoni di sobrietà e ultimi bicchieri che il Cinema USA ci ha ormai insegnato come se fosse qualcosa che abbiamo provato sulla nostra stessa pelle.

 

Un dialogo tutto proiettato nel passato, ma che risulta il perfetto punto di partenza per il secondo atto, ovvero quello ambientato in comunità, di Sound of Metal.

 

 

[In Sound of Metal assistiamo a una prova incredibile di Riz Ahmed]

 

 

Accompagnamento

Il momento migliore, la bevuta: cosa accompagniamo al film?

Ecco un consiglio su cosa bersi mentre si guarda o riguarda ciò di cui abbiamo parlato. 

 

Sarà perché l’associazione tra il Metal del titolo e il nero è estremamente immediata, sarà perché le birre di quel colore sono spesso caratterizzate da un’amarezza avvolgente, calda, quasi accogliente come il dramma intimo ma empatico di Sound of Metal, ma ho subito pensato ad una birra scura da associare al film di Darius Marder.

 

Questa scelta si lega a livello visivo con l’oblio, per Ruben uditivo e per la birra cromatico, in cui il film ci catapulta: un colore che si porta appresso sentori che abbiamo già definito come caldi e accoglienti, ma che spesso sono più associati al ricordo e al passato che a una soddisfazione momentanea.

 

 

[Ruben appena divenuto sordo e Lou che chiama il suo sponsor]

 

 

Serviva però un qualcosa che spingesse l’accostamento di Sound of Metal più in là del semplice ricordo malinconico, che ben si sposa con le stout che la gente di Dublino joyciana lasciava aprire al fuoco del camino: qualcosa che ci portasse negli USA, patria della rivoluzione brassicola, che ci raccontasse l’innovazione del Cinema indipendente americano e la sua attenzione quasi spregiudicata al mezzo filmico.

 

Così mi sono ricordato di uno dei prodotti più amati e citati dagli appassionati di birra artigianale: la Chipotle Porter di Mikkeller, birrificio zingaro tra i più noti del panorama europeo insieme al conterraneo To Øl.  

Un marchio, quello danese, che ci riporta subito al mondo indie, alla sperimentazione e a delle etichette che sembrano uscite dal laboratorio di mastri birrai di uno dei racconti della serie Easy di Joe Swanberg.

 

La Chipotle Porter, come suggerisce chiaramente il nome, è una birra estremamente particolare in cui su una base Porter, quindi uno stile classico del mondo brassicolo inglese, si è scelto di aggiungere al mosto dei peperoncini Chipotle - ovvero dei jalapenos affumicati - con l'ovvia nota che si portano dietro.

 

 

[L'etichetta della Chipotle Porter]

 

 

Ci ritroviamo perfettamente nello stile delle American Porter, come Sound of Metal è un dramma solido e ben costruito, alla vista molto scura, con una schiuma densa e di color nocciola: si presenta come ce l'aspettiamo.

 

Al naso arrivano subito le note tostate e affumicate che i malti scuri si portano dietro: in particolare spiccano il caffè con la sua amarezza avvolgente e un sentore di affumicatura che ricorda il camino con legna resinosa.

 

Al primo sorso ritroviamo subito gli stessi sentori, ma con un'aggiunta assolutamente unica: una leggera piccantezza, non troppo invadente, ma che assieme all'affumicatura prende la scena rispetto al classico caffè da Porter.

Come Sound of Metal la Chipotle Porter chiude il suo assaggio in una sorta di "apertura": da un lato la nuova stabilità di Ruben, ancora sordo senza più nulla ma finalmente conscio di stesso, dall'altro i sentori tostati di caffè che si evolvono in un cioccolato più dolce e persistente, che richiama la punta di dolcezza sentita al naso in precedenza.

 

Una birra che sa unire le particolarità ad una base solida così come Marder ha saputo osare e sfruttare la lezione del Cinema indipendente in Sound of Metal: un dramma quadrato, che non sfigura nei primi quindici film della nostra classifica di fine anno e nella rosa dei candidati agli Oscar 2021

 

Buona visione e buona bevuta!

 

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1 commento

Fabrizio Cassandro

3 anni fa

Ciao Luca, sì la mania della birra gelida è un problema che attanaglia molti publican nostrani e che soprattutto su birre fatte come si deve, e tu lo sai bene, può fare danni incredibili all'aspetto organolettico.
Questa poi che deve essere una birra in cui il piccante si innesta in una base accogliente come quella delle Porter, anche se l'interpretazione americana è un pochino più spigolosa, se appiattita dalle temperature troppo basse. 

Detto questo sì, gran birra!

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